Roberto
Deidier: "Non ho mai creduto..."
1. Che funzione
ha la poesia? A cosa serve?
Non ho mai creduto a
una vera e propria "funzione" dei
linguaggi estetici. A chiunque abbia scelto
di attribuire una qualsivoglia qualità alla
poesia, civile, o più espressamente
politica, o vagamente consolatoria, ho sempre
risposto che la poesia è tutte queste cose
insieme, e nessuna di queste, senza bisogno
di alcun aggettivo. Nel nostro confuso
presente (ma quale presente non lo è?) fare
poesia, cercare quella condivisione di senso
che solo la poesia sa dare, è già un grande
atto di civiltà. Perché la lingua, la
materia della poesia, è la nostra carta
didentità; allora, esercitare la
lingua al massimo della sua espansione è
veramente la più profonda azione di
anticonformismo che possiamo compiere. E' il
solo, autentico luogo di incontro a cui
riesco a pensare: dove lumano si fa
parola, e la parola circola creando
relazioni, stabilendo contatti, suscitando
tensioni. Proprio per questo è importante
che la poesia comunichi, che non si arrocchi
nei suoi preziosismi, rinunciando magari a
qualcosa delle sue potenzialità retoriche,
alle sue tentazioni di oscurità.
2. Come è
cambiata la poesia negli ultimi 50 anni?
Mi verrebbe da dire
che si sia meno "letteralizzata",
che abbia cominciato a usare un linguaggio
più "onesto", come indicava Saba,
che su questo aspetto è stato spesso
frainteso. Poi, però, leggo soprattutto tra
i più giovani poesie iperletterate, e allora
non so più se dipende dalla loro età, dalla
loro ricerca didentità ancora in
corso, dalla loro fatica di conquistarsi una
lingua, o se si tratta di una vera tendenza.
Il panorama è molto frammentario, rispetto
al passato, quando esistevano dei punti di
riferimento, che potevano essere Montale o
Ungaretti, Saba o Penna. Non dico che questo
sia un limite, probabilmente lo era per quel
passato, che ha cominciato a frantumarsi
negli anni Settanta; può anche essere una
ricchezza, ma potremo giudicarla solo nel
tempo. Se la poesia vera è sempre così
splendidamente inattuale, abbiamo bisogno di
un ampio arco di tempo per poterla
serenamente osservare. Per questo non riesco
a condividere il lavoro di antologisti e
manualisti frettolosi, che scavano nel corpo
vivo della poesia confondendo le acque, solo
per affermare un proprio piccolo, esilissimo
potere.
3. Come si
identifica oggi il linguaggio della poesia?
Ecco, si muove su
molti livelli e in altrettante diverse
direzioni. Per quanto siano caduti gruppi e
scuole, anche se solo in modo virtuale,
perché il gruppo o la scuola continuano a
servire più al critico che al poeta, direi
che emergono soluzioni difficilmente
riconducibili a questa o a
quelletichetta. Gli anni Settanta e
Ottanta, pur nelle loro differenze evidenti,
mostravano ancora certe compattezze interne,
per esempio la fisicità, o il neometricismo:
già negli anni Novanta queste si vedevano
meno, ma questo dipendeva, allora, anche
dalla scarsa visibilità che la nuova
generazione affermatasi in quegli anni
subiva. Oggi i giovani hanno a disposizione
molti più strumenti, a partire dal web,
per farsi conoscere, ma spesso non
interagiscono, sono autoreferenziali e si
autopromuovono allinterno della loro
fascia anagrafica, insomma non dialogano con
chi lavora già da tempo. Si è interrotto un
canale fondamentale e questo temo che non sia
un aspetto positivo proprio per la naturale
evoluzione dei linguaggi. Montale chiedeva
una certa consapevolezza nellinserirsi,
col proprio lavoro di poeti, a una certa
altezza dello sviluppo del linguaggio
poetico. Questo aspetto è venuto meno. Certi
preziosismi che intasano il linguaggio dei
giovani non sono davvero tollerabili, ma ciò
che è più inquietante è che loro non lo
sanno. Si è interrotta, insomma, una
"tradizione", se così possiamo
chiamare non la stasi, ma il movimento dei
linguaggi. Laspetto sorprendente è che
la lingua della nuova poesia lascia intendere
molte letture, spesso però mal digerite o
male assimilate.
4. Oralità,
scrittura, virtualità: come interagiscono i
differenti canali nella realizzazione del
testo poetico?
Il testo poetico è
fatto per lorecchio, ancor prima che
per locchio. Se voglio
"sentire" una poesia devo leggerla
a voce alta, devo intendere come suona.
Questi canali sono dunque tutti interagenti
tra loro. Quanto alla
"virtualità", se la si intende
negli aspetti performativi della poesia,
allora devo ammettere che questi sono già
tutti nella natura del testo, che è uno
spartito da eseguire. Diffido, per esempio,
dei performer che urlano: la poesia,
se è riuscita, arriva naturalmente come uno
schiaffo, non ha bisogno di essere urlata. Se
invece intendiamo la virtualità come
invenzione di mondi altri, allora la poesia
è la più virtualista delle creazioni umane,
apre tutte le porte della mente.
5 Qual è lo
status del poeta? Perché oggi uno
spacciatore o un pornografo sono più
accettati socialmente di un poeta?
Viviamo in una
società altamente pornografica: il culto
spropositato delle false immagini, la
creazione di icone da quattro soldi porta
inevitabilmente alla pornografia, ovvero al
nudismo esibito di tutto, dalle emozioni, che
così si sviliscono, alle vicende private,
che si prestano a un cortocircuito di
morbosità davvero inquietante. Altro che il
«mon coeur mis à nu» di Baudelaire
Siamo tutti fruitori di questa messe
pornografica, basta accendere la televisione,
aprire i giornali, entrare nella rete. La
società si identifica in questi non-valori,
e se ci si azzarda a invocare altri valori si
è subito tacciati di falso moralismo e
azzittiti. Anche leditoria non è
esente da questa pornoinvasione, che sottrae
volutamente spazio a ciò che è autentico,
lo priva della possibilità di esprimersi e
farsi riconoscere: il poeta però rappresenta
una sacca di resistenza, perché è ancora
libero, non avendo un mercato.
Paradossalmente, la sua marginalità lo
preserva dagli assalti di una cultura
avvilente e ne fa il punto di attrazione per
quei pochi ma bastano comunque
disposti a invocare altre identità, più
coraggiose. Così, suo malgrado, il poeta si
ritrova oggi a svolgere una funzione sociale
in cui recupera il suo antico ruolo, se così
vogliamo, "epico": quello, cioè,
di identificare il margine tra leterno
e il transeunte, tra lautentico e
leffimero. Di parlare a nome di una
civiltà altra, rispetto a quella in cui
siamo tristemente invischiati; di porre delle
nuove fondamenta.
[Roberto Deidier]
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