Paolo
Pettinari: "Oggi come ieri la
poesia..."
1. Che funzione ha oggi la
poesia? A cosa serve?
Oggi come ieri la poesia aiuta
a vivere fingendo, esercitando pratiche di
magia, esplorando le parole per catturare
simulacri di cose e poi, illusoriamente, le
cose stesse. Per chi scrive, così come per
chi legge o ascolta, la poesia è
un'attività di simulazione, è gioco (se non
proprio menzogna). In quanto gioco serve a
rendersi conto delle ineludibili regole di
questo mondo. Ci aiuta a riconoscerle, ci
allena a rispettarle, ci consente di
trasgredirle, ci dà l'illusione di poterle
eludere o distruggere. Ancora oggi la poesia,
come la matematica, come la musica, ha un
formidabile valore pedagogico.
2. Come è cambiata la
poesia negli ultimi 50 anni?
Negli ultimi 50 anni è
successo qualcosa di simile a quanto successe
in Europa tra l'XI e il XIII secolo. La
poesia ha smesso di parlare latino, la lingua
dei chierici, dei pensosi intellettuali, dei
pronipoti dell'ermetismo o degli ermetisti
ideologizzati e si è data ai giullari, ai
trovatori. Come nella Provenza del XII secolo
oggi la poesia è soprattutto cantata, i
poeti sono cantanti e gruppi che tengono
concerti negli stadi. La poesia non si legge
ma si ascolta, spesso la si ripete cantando,
a volte la si balla. Nel XII secolo solo una
piccolissima élite leggeva poesia scritta,
mentre la massa di tutti i ceti sociali
apprezzava i testi cantati dai trovatori;
così oggi una élite altrettanto esigua
legge poesia. Chissà, forse in futuro Biagio
Antonacci sarà studiato come Bertrand de
Born, e nessuno si ricorderà più di Mario
Luzi come di Hildebert de Lavardin. I testi
delle canzonette sono di qualità scadente?
Può darsi. Ma alle radici di tutta la
letteratura italiana c'è la canzonetta di un
giullare: "Salva lo vescovo
senato".
3. Come si identifica oggi
il linguaggio della poesia?
Sul piano del contenuto: tutto
ciò che non è comunicazione pratica,
informazione, istruzioni per l'uso, regole,
cronaca di fatti, ma descrizione
contemplativa, memoria, sentimento, ironia
rischia di finire nel calderone della poesia.
E però, senza una forma che aggiunga senso,
il discorso rimarrebbe semplice
comunicazione. Ancora oggi per fare poesia è
necessario organizzare il testo in modo che
la scelta delle parole, ma anche la loro
disposizione e il ritmo che assume il loro
susseguirsi, esprimano un contenuto, forse
non manifesto alla prima lettura o al primo
ascolto, ma già oscuramente percepibile. E'
quello che ti fa dire: non ho capito, ma mi
piace, e che ti induce a rileggere, a
riascoltare, a rileggere ancora. Il
linguaggio della poesia, anche in questo
presente fatto di comunicazioni multimediali,
si identifica non nel contenuto manifesto, ma
nel mutevole mare delle parole, nella
fascinosa densità del testo.
4. Oralità, scrittura,
virtualità: come interagiscono i differenti
canali nella realizzazione del testo poetico?
La comunicazione orale
richiede testi più facili da memorizzare,
quindi predilige il ritmo, la metrica, la
rima, tutto quanto aiuti a ricordare le
parole. La scrittura non ne ha bisogno, e il
verso libero è il prodotto più evidente
della comunicazione scritta. Le due forme,
quella chiusa e quella aperta, ormai da più
di 100 anni interagiscono producendo
significato: l'una come residuo prezioso
della tradizione, l'altra come segno di
contemporaneità e quotidianità. Da questo
incontro e scontro entrambe le forme si sono
arricchite di senso. La comunicazione
virtuale ha solo moltiplicato la mescolanza
dei codici: oralità, scrittura, visualità
possono lavorare insieme in quello che
chiamiamo multimedialità, che coniuga
l'ambigua permanenza della scrittura con la
solida precarietà della comunicazione orale.
5. Qual è lo status del
poeta? Perché oggi uno spacciatore o un
pornografo sono più accettati socialmente di
un poeta?
Perché il poeta è un
ciarlatano, un artigiano dell'inganno, un
prete di nessuna religione, una fattucchiera
perduta. La professione di "poeta"
non è mai esistita. Omero cantava storie
alle feste; Saffo gestiva una scuola; Orazio
non è certo vissuto con le vendite dei
propri libri; Shakespeare scriveva copioni e
recitava a teatro; altri sono campati grazie
alle rendite di famiglia; altri ancora sono
stati insegnanti o giornalisti o si sono
arrangiati con mille espedienti. Nessuno è
stato poeta come si può essere avvocato o
commerciante o marinaio o impiegato del
comune. Nella notte dei tempi il poeta era
spesso sacerdote o mago o sibilla, qualcuno
che usando le parole in modo appropriato
poteva modificare le cose, dare la morte o
restituire la vita, catturare gli dei. Aveva
un potere temuto e riverito. Con il
succedersi dei millenni si è conservato il
carattere manuale dell'arte poetica, il poièin,
ma si è via via dissolto l'aspetto magico e
sacrale. Oggi il poeta è un artigiano della
parola che a tempo perso combina suoni e
frasi in modi diversi dal discorso comune,
talvolta producendo un'eco di quei
primordiali versi intrisi di religione e
magia, facendo il possibile per nascondersi,
per dissimulare, nel timore che i nostri
tempi apparentemente intrisi di razionalità
possano seppellirlo sotto una coltre di
sarcasmo. Per questo, per questa eco lontana
che risuona, dico che ancora oggi il poeta è
(e dovrebbe esserlo con orgoglio) un
ciarlatano, uno spacciatore di elisir, un
cerretano dell'anima che grazie all'arte sua
poetica ci accompagna fra i mali oscuri del
vivere. Ma dirsi ciarlatano non suona bene:
meglio dichiararsi ragioniere o maestra o
spacciatore, è più serio!
[Paolo Pettinari]
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