Antonella
Pierangeli: "Da quattro anni
vivo..."
Poesia come resilienza
Da quattro anni vivo
da sola in una casa enorme, con le pareti
gialle e un grande camino che domina un
salone affacciato su di un terrazzo inondato
di sole. Una casa, questa, che ho fortemente
voluto e restaurato fin nei minimi
particolari. Pavimento in cotto toscano
montato a incastro, grandi archi che separano
gli ambienti e due studi, entrambi con le
pareti interamente coperte di libri, disposti
molto lontano tra di loro. In questa
solitudine, tra latavico ricordo di
simmetrie che ancora dominano un abbandono
affiorante solo in superficie, sto pensando a
quando lessi per la prima volta la stupenda
raccolta di versi Parola e silenzio
di Gabriella Maleti (che purtroppo ci ha
lasciati nel marzo 2016): una conversazione
socratica e salvifica con la sua
intelligenza, al tempo di un dolore cupo e
senza nome che infestava lanima.
Ricordo che Gabriella mi mandò il cartaceo
del libro. La lettera che lo annunciava mi
fece molto pensare, dato che mi chiedeva di
leggerlo subito. Ne fui molto felice, però
il libro non lo lessi immediatamente, lo
lasciai sulla scrivania qualche giorno. Poi
una sera, presi il libro e lo lessi.
Piantata così nel
mio cervello una membrana poetica ricevente e
reagente, cominciai a capire che la poesia
non ha nessuna casualità intrinseca ma segue
un preciso disegno. Avevo bisogno di una via
di salvezza e la risposta era arrivata
insieme alla grazia scarna ed essenziale di
quei versi. Anche adesso, in questo preciso
istante, mentre i rumori del fuori annunciano
il mattino che avanza, un brivido mi
attraversa la spina dorsale. La mano allora
si dirige istintivamente al mio fianco
destro: è lì, nella mia tasca, che ho
portato il suo libro per molto tempo. Nei
suoi versi ho trovato la certezza del
doloroso e heideggeriano Dasein, la
faticosa rovina dellesserci,
sempre e comunque senza sottrarsi mai alla
vita. Laffinità elettiva dello scrivere
il corpo della parola e la sua
similarità cangiante mi hanno trasfuso
energia, linfa, lacrime ragionate. Trafitta
da queste schegge di alterità solidale, mi
sono sentita accolta: in quei lunghi mesi di
pensiero incenerito mi sarei portata,
altrimenti, sullorlo di un precipizio.
E forse proprio
questa, dunque, la funzione della poesia:
praticare un essenzialismo temporaneo, in
attesa di un tempo in cui essa sia presenza
usufruibile nel suo autentico essere. Quando
la poesia non è un reperto, una
suppellettile o semplicemente il risultato di
una coazione allartificio dellEgo,
è una macchina da guerra in tempi oscuri e
presagisce memorie devastanti e pali
conficcati in mezzo al petto.
Per qualche ragione Parola
e silenzio mi aveva trovato, mi
era arrivata al momento giusto, attraversando
la catarsi del linguaggio. Mi sono fatta
dunque erme-nauta, navigante a vista di
unermeneusi che non si configura più
come naufragio ma è piuttosto un decifrare
quella che Genet chiamava "la
spaziosa carne cantante" sulla
quale si iscrive non si sa quale Io, più o
meno umano e sempre in via di trasformazione.
La scrittura poetica
diviene, in questa ermeneutica del vivente,
l'unico luogo in cui non si è costretti a
riprodurre steccati, un altrove che
scrive se stesso e incarna anche una sorta di
trance che non cancella le
differenze, ma le anima, le arricchisce.
Con quel libro in tasca, ho
infatti a lungo pensato alla scrittura che
risana e salva, nell'asessuato trionfo della
parola, carne linguistica, materia organica,
scrittura di cadute e silenzi. Che la mano
dall'altro lato della penna sia di una donna,
come in questo caso, poi, è un puro
accidente perché, nonostante tutto, il
nucleo emotivo della poesia e il suo
equilibrio inquieto li sentiamo abitare
dentro di noi al di là dellidentità
di genere, formulando la stessa domanda che
un personaggio de LIdiota di
Dostoevskij pone al protagonista, principe
Myskin: "...è vero che voi avete
detto che la bellezza salverà il mondo?..."
e subito dopo: "Quale bellezza?
Perché anche i nichilisti e gli assassini
possono amare la bellezza". Ecco,
questo è il punto: la bellezza, larte,
la scrittura poetica, "il puro e
limpuro della parola" di
klossowskiana memoria, possono salvare dal
degrado etico ed estetico anche soltanto
attraversandoci nel bagliore di un attimo,
magari nascoste nelle pieghe di una verità
umana che non ci sembrava potesse essere
salvifica. Un poeta è dunque un animale
sacro, portatore di una consapevolezza
chimerica intrisa però di una forza in grado
di invadere distanze e realtà senza tempo,
di ascoltare voci e silenzi: il corpo
magmatico della lingua poetica diventa, in
questo sortilegio, resilienza.
E giorno ormai,
si è quasi esaurita lultima traccia
nel lettore cd del mio studio: Goran Bregovic
e la sua Ederlezi. Sembra che la
cultura romanì fondi sul concetto
di sopravvivenza ad oltranza la propria
forza, come se un fuoco, ardendo senza sosta,
distruggesse e perennemente rifondesse,
lenergia del terrestre e del sovrumano.
Ederlezi è un canto poetico di
rinascita, il gorgo che si allontana dopo
lequinozio di primavera e rinvigorisce
per poi sanare. Ecco: anche questo nostro
donarsi reciprocamente la parola poetica
quiescente è in fondo un cercare tra le
rovine e il caos la semplicità del chiarore
e dellalba.
"Compagno vuoto
che non hai più nome, in te occhio si fa
lucerna di corpo..." così scriveva
Primo Levi in un suo terribile verso: come se
la tematica dello sguardo che si posa
sullinguardabile fosse già partorita
dalla tenebra dellanimo: è il contagio
della scoria che può avvelenare. Il marcio
che avanza governa in maniera esponenziale la
cifra dellattuarsi del male e della sua
epifania: lo sguardo e la parola poetica ne
sono invece lapertura, lo spurgo della
parte infetta. Lunicum poetico
è il dazio da pagare per entrare in
territori così delicati e chi li ha già
profondamente esperiti offre aperture per
percorsi successivi, offre scrittura in forma
di caos da un lato, di estasi cromatica
dallaltro.
Nel bel mezzo di questo
tempo senza Bellezza, la poesia è
dunque stretta in un passaggio fatale tra gli
scogli, una specie di vascello fantasma alla
Herzog che a luci spente deve necessariamente
tornare alla seduzione verbale che lha
generata, per poter trovare il coraggio di
penetrare nella volontà di uscirne.
Diversamente non potrà trattarsi che di un
pensiero fittizio, senza alcuna presa sul
reale. In questo mi sei preziosa, Poesia,
ammaliatrice di ansie e cupezze luminose. Una
mano tesa nel buio, inaspettata e non
richiesta, almeno non ufficialmente. Si può,
infatti, donarsi di nuovo la parola dopo un
evento di distruzione anche soltanto
ponendosi in ascolto, quando il pensiero
dellaltro può farci da viatico per un
percorso arduo dinterrogazione che
vede, nellumano, il soggetto
interrogante e il punto di domanda
medesimo
Mentre mi avvio verso
unidea di colazione, mi rendo conto di
non avere scampo: memoria, narrazione,
dialogo, una Trimurti dalla consonanza
distesa tra noi da tempo immemore che
riannoda dolori, clamori, amarezze e fitte
lancinanti proprio sotto la convergenza delle
sinapsi neuronali. Questa strana forma di
lucidità esistenziale non sarà facile e
nemmeno possibile da evitare: limpulso,
il bisogno di trasformare in versi la propria
estrema esperienza sono insondabili e
comunque segno di disperazione già matura,
leopardiana, difficile da ingoiare senza
chiedersi che sapore abbia.
Avvilupata in questo
universo, sono anchio una superstite e
anche adesso ho la netta sensazione di essere
un corpo affamato del cibo dellascolto.
Provo a pensare, dopo aver compreso il mio
disordine, se riesco a vivere dentro al
rifiuto, alla disappartenenza. Nonostante la
mia riluttanza, dovrei convincermi che siamo
essenzialmente ciò che rifiutiamo: we
refuse, therefore we are, secondo una
variante del celebre cogito, ergo sum
cartesiano. È una lotta impari, un continuo
esercizio per fare tabula rasa, per
rimuovere e recuperare spazi ordinati solo in
apparenza, per cominciare a respirare di
nuovo nello spazio illimitato di un verso. La
resilienza, che la geometria
luminescente del poeticum ci
infonde, opera allora una mappatura genetica
di ciò che ci ha respinto o anche
abbandonato lasciandoci delusi ma vivi.
Descrive le impossibili altezze di corpo e
anima, cresce dentro ciò che una nostalgia
pervasa di tragedia ci pone davanti come
alternativa alla morte: un mettersi al riparo
da essa attraverso una fondamentale
duplicità, complicità e condivisione.
E quasi sera,
Gabriella, provo a pensare alla collina in
cui sei ora, al suo biondo tramonto...
[Antonella
Pierangeli]
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