"L'area di Broca", XXVI, 70, 1999
COLORI
Laura Leoni
Virginia
S'accorse solo allora, riflettendo e avendo portato la mano alla piega delle labbra, d'essere in un momento dell'inverno. Non sempre sapeva distinguerlo, poiché le stagioni nel loro andare, subiscono come gli esseri viventi un naturale processo di metamorfosi, sincronizzando il tempo ai nostri ritmi ed equilibri biologici.
Con la punta del naso attaccata al vetro della finestra, la guardava il sole, la riscaldava quel calore di cui aveva bisogno, spenta com'era nell'unico colore della sua essenza. Ogni volta, lungo il ballatoio, pregustava quel regalo dell'inverno, su una vecchia pavimentazione a forma esagonale sempre lucida, ma sconnessa e quindi pericolosa soprattutto alla sua età quando, distratta, affrettava il passo.
Un tempo Virginia amava i colori e tutto ciò che il loro potere le trasmetteva; entusiasmo, gioia, ed era allora che un fascino s'impossessava di lei, estraniandola anche a lungo dalla quotidianeità, non facendole rimpiangere affatto l'impatto graduale col reale; anzi era contenta di aver vissuto attimi e memorie che sembravano lontani.
Era sua abitudine (solo nei giorni in cui le andava di farlo) percorrere con l'immaginazione, e poi fisicamente, il lungo corridoio della sua casa, e visitare le varie sale che si affacciavano sia a destra che a sinistra, arricchita in quei momenti di un'energia intuitiva da trasportarla con entusiasmo all'ingresso di una di queste. Al giro della chiave le porte si schiudevano facendo trapelare un'atmosfera rarefatta, mentre un odore antico si sprigionava rassicurando le incertezze sull'incanto incontaminato, come si trattasse di un opera conservata da Virginia, gelosa custode delle sue interpretazioni cromatiche. Alzando lo sguardo il soffitto appariva tempestato da una collezione di lampadari sfaccettati a goccia, in cristallo di Boemia. Al centro dell'enorme stanza una leggera corrente d'aria proveniente dai finestroni produceva un'oscillazione ai cristalli.
Virginia, a volte, credeva si trattasse di un evento sismico, ma poi si tranquillizzava, poiché la circostanza si ripeteva ogni volta. Da diversi punti della sala, sulle pareti, una fioca luce filtrava riflessi, rifrangendo per effetto dei prismi un brillante arcobaleno di nebbia che ammorbidiva la figura in controluce di un'evanescente Virginia, ormai assorbita nella magica scenografia di colore. Alle sue spalle, anzi un po' più in alto, in una targhetta di bronzo era inciso, in caratteri neri, il nome della sala, chiamata appunto "Sala della trasparenza". Ritornò verso l'uscita, chiuse la porta con cura, come fosse il suo segreto; guardò la porta di fronte e non esitò ad entrare. Anche senza varcarne la soglia, riconosceva a memoria la sala opposta a quella della trasparenza, quella chiamata: "Sala dell'ombra congelata". Composti in vasi su tavoli e un po' dappertutto, un cimitero di fiori secchi decorava nella scarsa visibilità l'elegante silenzio che regnava, insieme a un particolare odore di muffa, causato da infiltrazioni d'acqua che scrostavano il vecchio intonaco.
Iris, giaggioli, fiordalisi, rose, scalati in una gradazione dal blu-viola fino al rosso cupo, esplodevano come su una tavolozza preparata con toni freddi. Le sagome floreali si protendevano nel vuoto congelando ombre per poi dileguarsi mano a mano che il sole calava. La contemplazione di quella sala fu abbastanza esauriente, e ora Virginia, appellandosi al ricordo e trovandosi circa a metà del ballatoio, procedeva con incedere lento verso la sua sinistra. Aveva nostalgia della "Sala della luce". Forse la malinconia della "Sala dell'ombra congelata" l'aveva un po' intristita, tanto che un brivido di freddo la percorse. Sembrava sicura: la terza porta a partire dal fondo, sempre alla sua sinistra, era la dimora della luce. Una vitale serenità e un salutare benessere rinfrancavano lo spirito e lo avvolgevano nel colore irradiato dai gialli tappezzati alle pareti. Una misteriosa luce quasi solare permaneva nei giorni d'intensa nitidezza fino a smorire nei tramonti. Poco più in là alcune specchiere dalle cornici in oro brunito contribuivano (in simbiosi con i toni caldi del giallo) a garantire la continuità di quell'alone luminoso sospeso nella quasi totale meraviglia che Virginia sorpresa dall'emozione, coglieva in quegli istanti.
Improvvisamente ebbe un attimo d'esitazione e richiuse la porta, il ballatoio nella semioscurità del pomeriggio si presentava come una galleria che si allungava per poi perdersi all'infinito. Una stufa a legna poco distante proiettava sul soffitto ombre guizzanti come folletti che si arrampicavano nel bianco fino a perderne traccia. Quel bianco, quell'enorme spazio bianco che la stava osservando, catturava nella sua integrità mistica un popolo di fantasmi, privi di quei colori che Virginia amava, in virtù del bianco stesso. Bianco, appunto, signore assoluto, si sgranava nella solitudine del muro per protendersi nell'idea della struttura stessa, compiaciuto del simbolico contatto che Virginia manteneva, invecchiata nella passione per i colori.