"L'area di Broca", XXVI, 70, 1999
COLORI
Sileno Poli
Il colore di Dio
Con l'approssimarsi dell'inverno mia moglie insiste perché io indossi più spesso i miei pantaloni di velluto verde. Io sono quasi certo di avere solo un paio di pantaloni di velluto, di color marrone scuro.
Ciò detto, poco importa, la storia è piena di musicisti sordi e pittori ciechi, di matadores che hanno paura del toro. Questo, in fondo, siamo tutti quanti: fotografi ciechi, incapaci di vedere, se non fosse per quei rari istanti in cui ci sembra di scorgere "il filo da disbrogliare che finalmente ci metta nel mezzo di una verità": il colore di Dio?
Edward Weston, fece appena in tempo a provarlo il colore, era il 1953 quando gli fu dato di usare le prime pellicole Ektacrome, e già il morbo di Parkinson iniziava a masticargli le ossa. Il risultato della prova fu travolgente, ma ancora una volta il progresso arrivava troppo tardi. Edward scrisse: "Proprio nel momento in cui ho cominciato ad andare avanti, sfortunatamente, dovevo smettere per varie ragioni. Sento che ho solamente toccato la superficie. Ma quelli che dicono che il colore con il tempo prenderà il posto del bianco e nero stanno dicendo sciocchezze. Le due cose non sono in competizione. Sono mezzi diversi per fini diversi".
Quando Edward era un bambino americano di quattro anni a Silvestro Lega ne rimanevano da vivere ancora cinque, durante i quali deliziava gli amici che lo ospitavano nelle loro tenute di campagna con i suoi ritratti e i suoi paesaggi toscani. Un Lega apprezzato dalla critica per i suoi colori spenti e per il tocco sempre meno definito e più astratto. Il culmine di una ricerca formale? No, lo si è creduto a lungo: semplicemente il sopraggiungere della cecità.
Ma non ho mai conosciuto nessuno come M.C. Lui era davvero il più folle di tutti. Come potremmo chiamarlo uno che, cieco dalla nascita, che non ha mai visto nulla e non conosce i colori, si ingegni a voler fare il fotografo?
"La mia è una ricerca sul colore," diceva. E poi voltandosi verso il suo piccolo aiutante, un bambino, con poco più di cinque anni, lo presentava. "Ecco, signore, le presento Paco, il mio assistente," e sorridendo ironico aggiungeva, "i miei occhi".
In molti lo hanno visto aggirarsi per le strade di Lisbona al mattino con la sua borsa a tracolla, gli occhiali neri, l'esile cavalletto usato a mo' di bastone, e il bambino che lo precedeva.
Era la Lisbona degli anni settanta, giungevano fino al Miradouro di Santa Luzia e da lì contemplavano assieme il grande fiume che attraversa la città.
M. sentiva la luce del mattino sul volto, ascoltava il vento e sedendosi sulle panchine decorate da fredde azulejos, prendeva in braccio il bambino e domandava:
"Cosa vedi, Paco?"
"In mezzo al fiume c'è un'enorme nave con il ponte per caricare le merci".
E poi quasi morbosamente: "E di che colore è, Paco?"
"Gialla, con macchie di ruggine arancio, sembra una corteccia."
"Gialla?, sull'acqua scura, la faremo a colori. Hai preso la pellicola?"
"Sì."
Giallo, gli piaceva il giallo, il giallo era il sapore dei limoni, i limoni sono gialli, dunque la grande nave era una macchia di aspro e allegante sapore che troneggiava sul ghiaccio, sul sapore neutro e forse un poco mentolato dell'acqua.
Montava il cavalletto in fretta, caricava la macchina con gesti abili e rapidi, e poi: "Vieni Paco, sali sulla panchina, facciamo l'inquadratura. Da che parte è?"
"Ecco, voglio che la prua tocchi il lato della foto, come una fetta di torta di limone, e che dietro non si veda niente, solo il cielo e la luce di quest'ora": il caldo sul volto per lui. "Metti a fuoco, ecco, è come ti ho detto?, adesso chiudi il diaframma, voglio a fuoco anche lo sfondo, alza il tempo se necessario". E poi il momento solenne dello scatto, il pomello del flessibile fra le dita sudate del fotografo, la cattura dell'immagine. Seguiva il ritorno a casa, la consegna al laboratorio posto lungo le vie vecchie dell'Alfama: profumi di mercato, voci di gente, colori che è difficile immaginare, ma non catturare.
"Ci fermiamo?" chiedeva Paco.
Ma M. fingeva di non sentirlo. "Mai più di una foto al giorno per un fotografo cieco," pensava.
Poi passava un'intera settimana di lavoro e di attesa. Quando si crea l'attesa è fondamentale. Al sabato mattina Paco correva su di corsa per le scale del vicolo. "Ce le ho, ce le ho!" gridava.
"Ti sei ricordato di farne due copie?"
"Bene, allora prendine una e ripassala al vetro calcando con la matita come ti ho insegnato."
Così poteva sentire la forma e giudicare l'inquadratura seguendola con le dita.
E poi c'era la parte più bella, il tramutarsi della foto in racconto.
"E adesso siediti qui a fianco a me e racconta," l'agitazione tradiva la sua impazienza. "Com'è, cosa si vede, com'è riuscito il giallo?"
"Bene, mi pare, il mare è scuro e uniforme, sul ponte si scorgono uomini piccoli come mosche al lavoro. Il giallo è compatto, lucido, perfetto...".