"L'area di Broca", XXVI, 70, 1999
COLORI
Marisa Papa Ruggiero
Il tappeto animato
Lei non ricorda che l'attesa; ha imparato, col tempo, a riconoscere i diversi colori dell'attesa, l'attesa di qualcosa che ha dimenticato. Di cui non sa dire il nome.
Eppure, a suo modo, l'attesa allestisce una scena, una scena mossa da linee interne sensibili, da miriadi di sottilissime ruote dentate e congegni di precisione. Una scena che continua ad accadere.
Lei mette a fuoco l'immagine, non incontra che la recita: la vede impallidire; poi scompare, salendo in groppa al minuto.
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A capo chino sul foglio adesca il testo in un'incertezza divisa. Una nota fuggiasca, sgusciata da una strana musica, vi gioca dentro creando ingorghi di colori tra le righe a cui le singole parole reagiscono, si riconoscono a se stesse necessarie.
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Non è propriamente un colore (è uno stato, una dimensione?), un non colore, che però ha tutto il potere di replicarsi. Riesce ad esistere attraverso la dispersione di sé, nel fumo prodotto dalla sigaretta, per esempio, oppure può acquistare profondità divenendo misura spaziale della distanza. Sa anche, di converso, plasmare un corpo attraverso l'ombra e, come quest'ultima, riesce a strisciare sotto i suoi passi o proiettarsi su un muro. Ma è nella cenere, nei residui spenti depositati nel braciere che puoi toccare la inconsumabile memoria di ogni morte.
Lei ha attraversato quella zona, quella rara miscela ai confini del nero. Ma quando? Si volge indietro, osserva. Sa che bastano poche gocce perché tutto si spenga. Sa che ancor meglio del nero è il grigio che uccide, uccide più a fondo, ma senza dolore, senza spargere sangue.
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Ancora ricorda. Avverte sotto le tempie lo sferruzzare dei giorni in un ansimare dorato. Fu la ginestra di marzo a segnalare il primo maldestro sfarfallio luminoso attraverso i vetri della mansarda (o era, invece, il guizzante riflesso di uno specchietto sulla parete?). Fu comunque quel giallo, quella feroce cognizione della luce a segnare lo scatto in avanti del tempo, a marcarlo.
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In campo rosso ridipinge la propria ferita, che cresce, espande a vista d'occhio, esce dal quadro, se ne va in giro portandosi ovunque quel rosso inimitabile. Lei continua a ferirsi immergendosi in quel denso amalgama senza contorni, che non tollera forma, che non può essere dipinto, né esibito, ma soltanto restituito (lo comprende per la prima volta, adesso) al solo elemento dal quale proviene. La scatola dei fiammiferi è là, sotto i suoi occhi, basta allungare la mano. Davanti alla fiamma che avvolge veloce la tela può distinguere, per un attimo, il senso originario di quel rosso nei due diversi elementi che lo compongono divenendo adesso medesima sostanza.
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La certezza della sua venuta le giunse incontro un mattino presto nei brevissimi istanti che precedono il risveglio. Alla visione fu sufficiente un colore (quel preciso colore) per divenire evento. Una marea di fiori azzurri, a perdita d'occhio, le allagò le pupille.
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Riprende a sfogliare i suoi fogli: è come srotolare un tappeto istoriato, fitto di abrasioni e di nodi, una superficie animata da innumerevoli pigmenti intrecciati l'uno all'altro in un unico disegno. Vi immerge gli occhi: per effetto ottico alcuni colori sembrano sollevarsi oltre il limite della fibra, altri tendono invece a comparire là dove essi sono mancanti. Si accorge di impiegare l'occhio in un diverso modo: è come fissare l'interno mobile di una superficie. Il disegno è lì: lentamente la sta catturando per sagomarla nelle sue linee, e lei vi aderisce con i suoi piani e i suoi nervi: si vede raggiunta dai suoi stessi passi, dai colori che ha vissuto.
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Uno sguardo di pietra verde, in lotta col sole... Sì, era giunta fin là, a dispetto di tutte le amputazioni, con un pugno di spezie e di semi avari per accogliere non il miraggio né il durevole, ma la pressione imperfetta di falena in amore (era questa precarietà che la rende possibile...) era giunta fin là per partire di nuovo, fino a toccare il punto estremo di resistenza, proprio fin là, dove le cose si sono pronunciate, dove infuria l'innamoramento delle immagini.
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Giorni in viola retro-cedono sulla bobina della memoria. Gusci esangui, aperti, disperdono l'intero contenuto, allagando il tempo. Lei li guarda mentre tutto si versa. La macchia incolore invade ciò che rifluisce altrove. Altrove, dove ha già mutato sostanza.