"L'area di Broca", XXVII, 71-72, 2000
SCRITTURA E (E') POTERE(?)
Donato Di Stasi
Il tempo della scrittura e lo spazio del potere
La scrittura è un'utopia senza luogo, è il perenne attraversamento, esperienza di crisi e di straniamento. La scrittura è speranza che si dà solo a chi non conserva più speranza alcuna. Guida le parole una logica della contraddizione, una disperata fedeltà al principio di non ripetizione.
Prima della modernità valeva l'equazione merce=linguaggio, con la quale si intendeva un continuo scambio di visioni del mondo tra coloro che entravano in contatto per la mercatura. Nella fase storica successiva la merce si è identificata con se stessa (merce=merce), con ciò denotando assenza di scambio, linguaggio tautologico, sonoro, musicale, ma vuoto. Si è iniziato a parlare per (in)cantare, non per significare. Senza un contenuto di verità il linguaggio si è articolato su regole rigide, sempre identiche: cellule sillabiche ripetute in serie per imitare il processo della realtà.
Il Potere (la produzione) garantisce, almeno in Occidente, una qualità di vita mai esistita in passato, perciò esige completa integrazione e acquiescenza alle sue regole.
Il libero fluire delle merci non può essere ostacolato, pena la caduta del livello di benessere, ne deriva lo svuotamento del concetto di antagonismo. Ma allora siamo condannati alla morte per afasia, alla peste nera dell'incomunicabilità?
Da un lato la socializzazione del desiderio (tutti agognano gli stessi prodotti), dall'altro il soddisfacimento egoistico e individuale che distrugge i legami morali per ridurli a vincoli materiali.
La scrittura deve riacquistare il suo ruolo, tornando a progettare un individuo concreto, consapevole di sé e della sua libertà, deve riprendere a dialettizzare secondo due movimenti antitetici: il superamento critico dell'omologazione come dato sociale negativo e la ricostruzione di una comunità di individui fondata su nuovi valori di solidarietà, di connessione reciproca, di com-prensione.
La scrittura come progetto di libertà reca l'impronta del disomogeneo, dell'inconcluso, del non detto. Si possono indicare in Emilio Villa, Carlo Emilio Gadda, Andrea Zanzotto, alcuni tra coloro che hanno dissociato significato e suono e hanno inzeppato versi e prose di endecasillabi, rifuggendo dal tono elegiaco-nostalgico per testimoniare la dolorosa esperienza del distacco dalla mediocrità quotidiana.
Si tratta di sollevarsi dallo spazio oscuro, saturo di quantità al tempo leggero, etereo, trasparente che non necessita della materia unidimensionale per esistere.
Lo spazio erode la vita, la invade, le strappa fecondità, desertificandola. La scrittura-tempo definisce la quasi eternità dell'attimo che non cessa di contrastare la caducità e la fugacità dell'esistere.
Lo scandalo dell'opera di Galilei non consiste nell'adesione al sistema eliocentrico copernicano, quanto nell'aver dis-locato lo spazio, aprendolo smisuratamente, rendendolo contraddittorio rispetto all'antropocentrismo claustrofobico della chiesa di Roma.
Allo stesso modo il sistema chiuso della società attuale è accanitamente devoto allo spazio, distribuito in un reticolo urbano che ha compresso ogni cultura non coincidente con il patto delle merci (produzione-vendita-acquisto). Il potere suggestiona con la forza delle immagini, imponendo l'autoreferenzialità del simulacro. L'universalità della figura rende inessenziale il motto verbale, a meno di non precipitare nelle bolge della cantilena pubblicitaria ("Cipro, un amore re-Cipro-co", "Con la crema di mattina sarai la più carina").
La réclame è l'ultima degenerazione del principio poetico dell'eco ritmica risalente alla rapsodia della lirica corale e monodica greca dell'VIII-V secolo a.C.
Al contrario la scrittura è dimensione del tempo, strumento di riflessione e di conoscenza, infinitamente aperto per accogliere l'Altro. Lo spazio colloca in sé la guerra del profitto, il tempo dis-loca fuori di sé il teatro della memoria, prefigura nuovi modelli, rinnova il ricordo della mente-coscienza non materializzata, che cerca di superare l'ossessione del possesso come ragione unica dell'esser-ci nel mondo.
Lo scandalo della scrittura discende dalla follia del pensiero, mentre la quiete del benessere induce la terribile illusione della necessità della ripetizione.
Se lo spazio manifesta caratteri sacrali (la suprema oggettività annichilente), la scrittura irrompe con la sua dynamis desacralizzante nell'esistenza, sconvolgendo i canoni intoccabili, pubblici e privati, del lavoro, del tempo libero, della famiglia.
Il potere della parola-immagine, impiegato per strutturare una lingua povera e banale (mera sovrastruttura dell'economia sociale), va osteggiato per evitare che dalla massa stralunata, maciullata salga un'onda verbale che annuncia la finale catastrofe linguistica (la tecnica si incarna nel linguaggio e lo disumanizza).
L'uomo-chiuso della tecnica è immerso in una rete inesauribile di potenziali rapporti (stampa, televisione, cinema, Internet) eppure instaura un numero limitato di relazioni, spesso ai limiti dell'indiffente e della solitudine.
La scrittura deve superare la con-fusione per giungere al dis-ordine, alla divaricazione dell'ordine attuale per delinearne uno nuovo. La scrittura è il gesto rivoluzionario che non si lascia trasformare in museo, è l'atomòs dell'esperienza, la sua parte non ulteriormente divisibile. In essa si verifica la stratificazione di tutto il tempo vissuto (I fratelli Karamazov di Dostoevskij, la Recherche di Proust).
La scrittura cambia casa (dallo spazio al tempo), ma il trasloco non la rende inattuale. Sfogliare versi rimane un potente farmaco per l'anima. Basta prendersi cura di sé e degli altri, perché l'indicibile venga pronunciato e l'inaudito esploda frammentandosi sulle pagine.
Occorre ridare consistenza e valore alle parole, prima della condanna all'incomprensione e al silenzio, prima che rimangano solo domande mute.