Indice L'area di Broca
 
L'Area di Broca
Indice n.71-72
 

Mediateca Italiana
 
Mediateca Italiana

 

 

"L'area di Broca", XXVII, 71-72, 2000

SCRITTURA E (E') POTERE(?)

 

Giovanni R. Ricci

Lo scrittore creativo e il potere
(appunti su un tema in apparenza inattuale) *
 

Per lo scrittore - non esclusivamente quello creativo - il potere può configurarsi come entità esterna facilitante o più spesso ostacolo (istituzioni pubbliche, sistema editoriale, dinamiche familiari) e/o come obiettivo più o meno rilevante della sua stessa produzione letteraria. Le vicende di questo rapporto si dipanano con modalità differenziate di caso in caso, stante la specifica individualità esistenziale di ciascun soggetto, ma si rapportano anche, e direi in primo luogo, al contesto storico e al tipo di società in cui lo scrittore si trova a vivere. Così, sebbene le democrazie non siano affatto esenti da problematiche per gli scrittori e in genere per gli intellettuali, è tuttavia ovvio che difficoltà particolari essi avranno in società dittatoriali ove non si rispettino i diritti umani incluso quello alla libera espressione artistica. Per citare un caso (immaginario) oggi estremo in tal senso, basti pensare a un'ipotetica aspirante scrittrice che viva nell'Afghanistan dei talebani: luogo ove, fra le altre modalità repressive, sono vietati cinema e teatro, non è consentito suonare strumenti musicali e le donne - tutte escluse dall'istruzione e dal lavoro - possono uscire solo accompagnate da un familiare maschio ed indossando la spersonalizzante e deumanizzante burqa che le nasconde da capo a piedi salvo una fessura traforata per gli occhi (invito caldamente a trasferirvisi le anime belle, o piuttosto stolide, che ritengano ancora di dover rispettare tutte le culture anche nei loro aspetti più ostili ai diritti fondamentali degli individui). Ma se quella stessa aspirante scrittrice vivesse poniamo a New York, farebbe certo una vita migliore, ma per sperare di vedersi pubblicata, dovrebbe scrivere un romanzo (o racconti) - giammai l'invendibile poesia - di assoluta digeribilità da parte del maggior numero possibile di lettori-consumatori (in alternativa, peraltro, potrebbe proporsi a quei piccoli editori non a fini di lucro che negli Stati Uniti coprono l'uno per cento delle vendite totali di libri). Scenario, questo, americano, ma anche in Europa il trend sembra essere non diverso: l'Inghilterra è già su tale linea, mentre altrove, anche in Italia, vi sono benemerite e munite sacche di resistenza editorial-culturale, da noi tuttavia per lo più chiuse ai prodotti stilisticamente più complessi salvo derivino da autori già precedentemente affermati. Inoltre, nel nostro paese, non sono pochi coloro che si dilettano a scrivere ma, al tempo stesso, la maggioranza degli italiani (il 56,2%) non legge neppure un libro all'anno: deprecabile comportamento diffuso più al Sud che al Nord, più fra gli uomini che fra le donne.
   Fatta questa premessa, procederò con talune esemplificazioni storiche trascelte - seguendo gli itinerari delle mie simpatie letterarie - fra le tantissime possibili passando poi a qualche riflessione psicologica e concludendo con uno sguardo ulteriore, direi socio-politico, alla situazione odierna.

Roma, 8 d.C.: l'imperatore Augusto, il pacificatore e il protettore delle arti, scrittore egli stesso, emana un provvedimento che, senza processo, relega il cinquantaduenne Ovidio a Tomi, sulle remote rive del Mar Nero; contemporaneamente, l'Ars amatoria, lo splendido manuale del libero amore che Ovidio ha scritto sei anni prima, è ritirato dalle pubbliche biblioteche. Per il quasi anziano poeta, che riteneva di avere avuto tutto dalla vita, è un trauma profondo e proprio la scrittura è lecito pensare gli dia conforto negli anni di cupa depressione e di vane speranze che seguiranno (anche Tiberio, il successore di Augusto, non riterrà di farlo tornare in patria). Già durante il lungo viaggio che lo porta lontano dall'amatissima Roma, scrive il primo libro d'una nuova opera, i Tristia (Tristezze). Muore a Tomi nove anni più tardi.
   Quali le cause dell'autoritaria decisione di Augusto? Lo stesso Ovidio ha parlato di due motivi: carmen et error. Dell' error poco si sa tranne la possibile correlazione con il contemporaneo esilio per adulterio d'una nipote dell'imperatore, Giulia, e qualche minimo riferimento del poeta, in particolare all'esser venuto a conoscenza di qualcosa che non doveva sapere. Ma il carmen è l'Ars amatoria, testo ritenuto pericolosamente corruttivo da Augusto che era impegnato in un tentativo di restauro dell'antica moralità contrapposta alla disinvoltura sessuale di allora. Ovidio citerà invano, nei Tristia, gli adultèri rappresentati nei mimi, spettacoli (parlati, diversamente dal mimo odierno) spesso finanziati dallo stesso Augusto e cui assistevano anche fanciulle e bambini: se ciò è consentito, scriveva Ovidio, "avrebbe meritato una pena minore l'argomento che io ho trattato". O forse, chiedeva, è il teatro a conferire ai suoi interpreti una speciale immunità?
   Ovidio aveva ragione ad evidenziare un'effettiva ingiustizia ai suoi danni. Solitamente, al contrario, sono stati gli autori teatrali a correre più rischi, nei loro rapporti con le autorità, rispetto a narratori e poeti, che pure se la sono dovuta spesso vedere con la censura (e qualche volta con qualcosa di peggio): un evento pubblico come lo spettacolo teatrale è stato visto di frequente come un potenziale veicolo di nozioni contrarie alla morale corrente o addirittura di veri e propri impulsi alla ribellione. Non sempre, naturalmente.
   Nella Atene dell'età di Pericle (461-429 a.C.), massima espressione della democrazia antica (una democrazia peraltro sui generis, ove permaneva, come in tutto il mondo precristiano, la schiavitù ed ove le donne non godevano di alcun diritto civile), e nei decenni successivi fin verso la metà del IV secolo a.C., il potere consentiva di fatto la satira politica a teatro. Gli autori comici ne approfittavano allegramente, come ci mostrano le sopravvissute commedie di Aristofane, nelle quali abbondanti sono gli attacchi e le ridicolizzazioni nei confronti di personaggi pubblici (talora potenti come il demagogo Cleone) che potevano anche essere presenti a teatro. E, sebbene non si possa escludere che vi sia stato qualche tentativo di limitare per legge il ludibrio dei comici ai danni di cittadini ateniesi, non risulta che Aristofane e i suoi colleghi abbiano dovuto realmente assoggettarsi a censure o sanzioni. Del resto lo stesso Aristofane ha attraversato incolume, continuando a far teatro a suo modo, ben due colpi di stato oligarchici (nel 411 e nel 404 a.C.) e due ritorni alla democrazia.
   Spostiamoci a parecchi secoli dopo. Milano, 1947: Giorgio Strehler e Paolo Grassi fondano il Piccolo Teatro. Come spettacolo d'apertura scelgono la Mandragola, il sulfureo capolavoro del nostro teatro rinascimentale. Non hanno fatto i conti però con i democristiani milanesi che, da zelanti clericali, si oppongono in quanto nel testo di Machiavelli si viola il sacramento della confessione. Così Strehler e Grassi, per colpa di Fra' Timoteo e delle aure provenienti da oltre Tevere, sono costretti a optare per un altro pur importante lavoro teatrale, L'albergo dei poveri di Gorki.
   E pensare che, al tempo di Machiavelli, in una penisola nei suoi vari stati assai meno democratica dell'Italia repubblicana del 1947, la Mandragola era stata rappresentata senza problemi sia in teatri pubblici sia alla corte papale di Leone X (1520). Questi, amante degli spettacoli, è anzi da supporre si sia assai divertito (non a caso era un Medici). Non sorprenda, però, la rampogna democristiana (che, curiosamente, qualche tempo prima, non era scattata a Roma, ove la Mandragola era stata tranquillamente messa in scena al Quirino): erano anni in cui la censura teatrale e cinematografica lavorava assai alacremente (il giovane sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti vi aveva gran parte) e, sebbene gli scrittori godessero decisamente d'una maggiore libertà espressiva, era stato sequestrato ad esempio L'amante di Lady Chatterley di Lawrence per ordine della Presidenza del consiglio. Prova di come, in certi momenti, una democrazia possa avere tratti illiberali e antidemocratici comparabili a quelli delle dittature: del resto, osservava Brancati nel '52 a proposito della censura teatrale, questa era addirittura "diventata più rigida che sotto il fascismo".
   Fermandomi per ora con gli esempi, che potrebbero essere innumerevoli, passerò adesso a considerare le situazioni psicologiche in cui lo scrivere ha come scopo (fra gli altri) o è di per sé una qualche forma di potere.
   Ogni nostra motivazione, nel momento in cui si realizza, genera la sensazione di un affermarsi almeno in parte gratificante e rappresenta dunque l'esercizio d'un nostro potere nei riguardi del fuori-di-noi o di nostre componenti intrapsichiche antagoniste alla motivazione medesima. Ciò - è ovvio - vale anche e a maggior ragione per la scrittura creativa: essa, fra l'altro, è anche una forma di comunicazione con il potenziale lettore ma questa comunicazione è unidirezionale, non prevede risposte e quindi assume tratti marcatamente assertivi presentando appunto al lettore una macchina generatrice di senso (il testo) che, anche quando abbia un'alta apertura semantica, resta comunque vincolata a un numero limitato di letture. Certo, per riprendere una suggestiva proposta di Borges saggiamente discussa da Eco, il De Imitatione Christi può essere letto come se l'avesse scritto Céline ma questo significherebbe usare il testo ai propri fini vagamente perversi disinteressandosi dei significati effettivi che esso veicola. Atto formalmente analogo all'utilizzare il testo medesimo per ripianare la gamba zoppa d'un tavolo o per tirarlo in testa a qualcuno. Così lo scrittore esercita un certo potere sui suoi futuri obbedienti lettori ripagandoli, ci si augura, con il piacere che il testo trasmetterà loro.
   Al giorno d'oggi una indubbia sensazione di potere ha dato poi, a chi era stato abituato a scrivere a mano o a macchina, il passaggio al computer. Scrivere a mano è piacevole e liberatorio ma è da escludere di poter presentare a un editore o a una rivista un manoscritto e dunque, prima dei personal, era necessario trascrivere a macchina, orrida procedura in cui uno sbaglio poteva significare dover ribattere un'intera pagina. Un passo avanti sono state le macchine per scrivere con correttore ma il personal è stata la soluzione ideale per esprimersi in libertà e potendo modificare quanto si è scritto in ogni momento. Ricordo ancora il mio aaah (interiore) di soddisfazione quando ho battuto le prime frasi su un word processor sia pure non IBM compatibile. Avvertivo un senso di trionfo su quella sezione del principio di realtà che in me opponeva appunto il pensiero di dover ricopiare a macchina i miei scritti alla mia stessa creatività (mentre scrivere direttamente al computer esercita su me stesso un effetto assolutamente opposto, sia pure orientato in direzione soprattutto saggistica). Naturalmente c'è ancora chi, come Pietro Citati, mena vanto dello scrivere solo a penna o a matita o, molto raramente, a macchina: ci sarà qualcuno, suppongo più in contesti privati che redazionali, che ha il compito di trascrivergli il tutto. In realtà, anche chi usufruisca di manovalanze battitorie (nel senso della tastiera del computer), non evita per questo di apparire arcaico, fuori epoca. Altri, solitamente fra gli scrittori meno giovani, avvertono - per così dire - il dramma di questa arcaicità ma pensano di non essere in grado di fare l'informatico passo: sarà dunque opera caritatevole insistere più e più volte con cotali soggetti sulla facilità estrema e sull'utilità inimmaginabile (a chi non l'ha sperimentata) della scrittura al personal.
   Il personal computer inoltre consente, se connesso a Internet, di procedere all'editoria elettronica, spazio potenzialmente affrancato dal tradizionale circuito editore-distributore-libreria ma di ciò parlerò più avanti. Mantenendomi su un versante sia pur blandamente psicologico, intendo infatti approfondire il tema del potere come possibile scopo della scrittura creativa, accanto alle funzioni comunicativa, autoconoscitiva ecc. Ora, a ben vedere, vi sono casi da noi di scrittori (non mi riferisco agli autori di saggi) che, grazie a questa qualifica, ottengono, per esempio, un qualche incarico in iniziative pubbliche attinenti alla letteratura: forse grandi gratificazioni ma piccoli, piccolissimi poteri. Del resto, per citare un'istituzione forte del potere culturale, nelle nostre università le discipline letterarie sono esclusivamente a carattere storico e teorico, non operativo (con l'eccezione degli insegnamenti di Drammaturgia e dei laboratori di composizione di testi, non artistico-letterari, recentemente attivati a Bologna e in altre sedi); dunque gli scrittori che vi hanno insegnato o vi insegnano, da Ungaretti a Luzi a Sanguineti a Magrelli, non hanno ottenuto la cattedra per i loro lavori creativi considerato che, nei concorsi universitari, questi valgono zero o poco più come titoli: infatti - sempre riguardo a materie storiche e teoriche - nulla ci dice che un valente poeta o romanziere sappia di per sé come e cosa insegnare mentre chi ha scritto articoli e saggi su tali tematiche si suppone che sappia, se non il come, il cosa (diverso, ovviamente, è il discorso per le citate cattedre di Drammaturgia come per quelle di Creative writing che comunque in Italia non esistono sebbene fiocchino le iniziative private in tal senso). Anche per quanto concerne gli altri paesi direi che lo status di scrittore creativo solitamente non basta, da solo, ad ottenere cattedre universitarie (se non appunto di Creative writing o discipline analoghe) né posizioni più elevate: ci vorrà quantomeno una produzione saggistica e, in certe situazioni storiche, un determinato impegno politico (si guardi ai casi di Léopold Sédar Senghor, presidente del Senegal per un ventennio ed accademico di Francia, e di Vaclav Havel, presidente dal 1989 della Cecoslovacchia e poi della Repubblica ceca).
   In altre epoche assai più che nella nostra, vi sono stati scrittori collegati strettamente ad ambienti del potere statale, come l'Ariosto che, com'è noto, fu funzionario presso la corte estense, dapprima, sotto il "giogo del Cardinal D'Este", oberato di incarichi e ambascerie (sebbene avesse già scritto il Furioso ottenendone grande fama), poi, ad opera del Duca Alfonso, spedito per oltre tre anni come commissario governativo nella rustica Garfagnana, infine gratificato - per il suo prestigio - con incombenze più selezionate; o, come Molière, che ebbe in Luigi XIV un suo difensore, specie rispetto agli attacchi degli ambienti ecclesiastici, ricambiandolo con commedie-balletto che piacevano molto al sovrano mentre egli avrebbe preferito probabilmente concentrarsi sul versante più realistico della sua produzione; o come i poeti della scuola siciliana, che agli albori della nostra letteratura, trovarono nella corte di Federico II un contesto operativo ideale.
   In realtà nello scrittore, se è veramente tale, agisce una vera e propria pulsione alla scrittura, un bisogno che può estendersi all'intero arco della sua vita o ad una delimitata parte di essa (penso in primo luogo al singolarissimo caso di Rimbaud). Questa necessità si integra con l'urgenza comunicativa cui ho fatto cenno prima, ovvero col desiderio di far circolare i propri testi (dopo Gutenberg, attraverso la stampa, oggi anche attraverso la rete) e, nel caso degli scrittori teatrali, di farli (anche) rappresentare (tale desiderio di comunicazione peraltro può benissimo convivere con il timore del giudizio). Sono questi gli impulsi primari e il fatto che dal loro compimento possano talora derivare quote di un qualche potere socialmente riconosciuto costituisce solo un effetto derivato e comunque, in termini psicologici, secondario.
   Molti sono gli esempi letterari di quest'intensa motivazione alla scrittura: Cechov ad esempio l'ha ben rappresentata nel Gabbiano in alcune battute del letterato Trigorin ma non è il caso di darne ulteriori prove tanto ciò che ho detto è cosa ovvia e nota a ciascun scrittore. Piuttosto è da evidenziare come, per dare sbocco a questo bisogno, gli scrittori debbano rapportarsi alla specifica società in cui vivono praticando le vie possibili, se vi sono. A questo proposito torna di nuovo utile la distinzione fra il grado di democraticità delle varie società: dallo specificissimo punto di vista che sto adottando, il grado di democrazia massima si avrebbe laddove ogni buon testo potesse facilmente trovare un editore che lo distribuisse ed un ampio pubblico, culturizzato e informato, che fosse motivato ad acquistarlo e a leggerlo. Inutile dire che questa società oggi non esiste (né è mai esistita). Al polo opposto, invece, porrei le società del tipo di quella già menzionata dei talebani afgani, società in cui l'arte è negata o consentita ai minimi e ufficialissimi termini.
   Ora, è interessante notare come, guardando ad epoche a noi vicine, sia talora possibile che anche un grande scrittore si adatti agilmente, fino a livelli psicologici profondi, a società di natura dittatoriale (che in teoria, stante il binomio arte-libertà, dovrebbe disprezzare) pur di continuare a veder esaudita la motivazione che dicevo: dobbiamo dire che in questi casi il grande scrittore è anche un uomo mediocre? Viene in mente Pirandello, la sua convinta adesione al fascismo (contraddittoria rispetto alla filosofia scettico-relativista delle sue opere), le sue lamentele (in sé giuste) con Mussolini unicamente per le scarse sovvenzioni al Teatro d'arte e per la mancata creazione d'un Teatro di Stato, soprattutto il suo assoluto disinteresse per il delitto Matteotti: se fosse sopravvissuto fino all'estate del '38, cosa avrebbe pensato delle leggi razziali? Certo, dobbiamo riconoscere che, riguardo all'atteggiamento verso la cultura, vi sono dittature e dittature: onestamente la politica in tal senso del fascismo non è assimilabile al rogo dei libri e al sostanziale azzeramento culturale posti in atto dal nazismo una volta giunto al potere. La Germania hitleriana ci offre anzi un esempio lampante del grado di iperadattamento etico cui può a volte portare la volontà dello scrittore, di un grande scrittore di non tacere (ove tacere significherebbe qui anche scrivere ma tenersi per sé i propri testi): mi riferisco al drammaturgo, romanziere e poeta Gerhart Hauptmann, premio Nobel nel 1912, dapprima - sotto l'Impero - pacifista e socialista (i suoi drammi erano stati vietati), poi favorevole alla guerra, assai popolare durante la Repubblica di Weimar e senza problemi - i suoi libri potevano uscire, i suoi lavori teatrali venivano rappresentati - nel corso del regime hitleriano. Non fu un nazista fervente ma William L. Shirer, nella sua Storia del Terzo Reich (tr. it., Torino, Einaudi, 1962), ce ne ha lasciato una ben significativa immagine:
   "Non dimenticherò mai la scena all'uscita della sua ultima commedia, La figlia della Cattedrale, quando Hauptmann, figura venerabile con la fluente chioma bianca ricadente sul mantello nero, uscì dal teatro a braccetto del dottor Goebbels e di Johst [il mediocrissimo drammaturgo nominato responsabile delle attività teatrali nel Reich]. Egli, come tanti altri eminenti tedeschi, si era riconciliato con Hitler e Goebbels, uomo astuto, si era valso di ciò per un'efficace propaganda, facendo notare instancabilmente al popolo tedesco e al mondo esterno che il più grande commediografo tedesco vivente, già socialista e paladino del popolo, non soltanto era rimasto nel Terzo Reich, ma aveva potuto continuare a scrivere e a far rappresentare le sue commedie" (p. 266-7).
   A completare il quadro, alla caduta del Reich, gli americani vietarono la rappresentazione dei lavori teatrali di Hauptmann nella zona di Berlino Ovest, ritenendolo troppo compromesso con il regime; i russi invece organizzarono a Berlino est un festival dei suoi drammi, tributandogli personalmente grandi onori: così egli, il 6 ottobre 1945, scrisse a un organismo politico-culturale di orientamento comunista, esprimendo l'augurio che esso riuscisse a promuovere la "rinascita spirituale" del popolo tedesco. Appare da questo esempio evidente come la motivazione che ho detto a non tacere abbia forti implicazioni narcisistiche.
   Hauptmann scriveva comunque quel che voleva e, sebbene quanto voleva non avesse alcuna connotazione ostile al regime, neppure ne costituiva un'esplicita esaltazione. Scriveva quel che voleva anche Céline, un altro grande scrittore la cui ideologia esplicita e profonda, tuttavia, collimava in gran parte - e per la parte più orribile (un feroce antisemitismo) - con quella nazista: caso che forse ci mostra come si debba davvero scindere il giudizio etico sull'uomo dal giudizio estetico sull'opera mentre ho l'impressione che l'ormai annoso e ineccepibile recupero, da parte degli intellettuali di sinistra o comunque democratici, di Heidegger come di Céline o di Pound slitti a volte verso la giustificazione etica, grazie all'opera, dell'uomo.
   Meno rispettabili (come uomini), però, sono forse quegli scrittori che - non mi riferisco ad epoche lontane - opportunisticamente adattino i loro testi all'ideologia politica e/o estetica del regime in cui vivono: questi, in genere, sono scrittori mediocri. Un laboratorio contemporaneo in tal senso è stata, direi, la Cina: durante la rivoluzione culturale, mentre mancavano notizie dei maggiori scrittori, proliferarono testi di dilettanti o addirittura creati collettivamente, tutti pedissequamente ispirati ai dettami formalcontenutistici sanciti dal potere. Estetica e ideologia venivano a coincidere o, per meglio dire, la prima era asservita alla seconda, con esiti spesso scadenti sul piano qualitativo. Ma, anche nell'esaltazione ideologico-narcisistica (può esistere anche un narcisismo di gruppo) che quegli improvvisati scrittori senz'altro provavano, erano tutti convinti, sinceri? O, per esistere come scrittore e per non correre rischi maggiori, qualcuno di loro si era interessatamente adattato? In seguito - conclusa l'ubriacatura culturalrivoluzionaria, morto Mao, sconfitta la cosiddetta "banda dei quattro" - in Cina si ebbe l'introduzione d'una certa libertà letteraria, che si estendeva alla possibilità di scritture soggettive e sperimentali; il tutto, com'è noto, è stato troncato dai fatti di Tienanmen, sanguinoso ed ideale preludio alla Cina di oggi: una dittatura comunistico-capitalista, al primo posto al mondo per le condanne a morte eseguite. Fra i numerosi scrittori cinesi perseguitati dal regime mi limiterò a menzionare due fra i più noti: Gao Xingjian, esule in Francia dal 1988, saggiamente insignito nel 2000 del Nobel per la letteratura, e Bei Ling che, fuggito negli Stati Uniti dopo Tiananmen, è poi rientrato in Cina ove è stato arrestato ed infine espulso.
   Questi due nomi attestano un dato evidente e che pure è necessario menzionare, e cioè che ci sono stati (e ci sono), anche negli stati più autoritari, scrittori democratici e non opportunisti. Le loro possibili scelte, oltre a quella sacrosanta di andarsene, non sono molte: scrivere senza far circolare i propri testi o diffondendoli per vie clandestine; cercare (se ciò è consentito) di pubblicarli correndo il rischio di subirne più o meno pesanti conseguenze qualora non si adattino alle norme poste dal potere; passare, in certi casi, all'azione. Citerò un solo altro nome per i tanti di ieri e di oggi: "Musicisti e scrittori - scriveva Giaime Pintor in una lettera al fratello del 28 novembre 1943 - dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla liberazione di tutti". Il primo dicembre, lasciando il tranquillo Regno del Sud e nel tentativo di passare le linee per unirsi alle formazioni partigiane operanti nell'Italia occupata, Pintor morì presso Castelnuovo al Volturno per una mina posizionata dai tedeschi. Ecco, a costo di cadere nel retorico, porrei, a titolo di exempla, da un lato la scelta radicale di Pintor ("Giaime lasciò i versi di Rilke e ci salutò" ha scritto in una sua bella poesia Spagnoletti), dall'altro Hauptmann che esce di teatro a braccetto con Goebbels.
 

Psicologicamente, però, c'è un'istituzione di potere che viene, in senso cronologico e strutturale, prima dello stato: la famiglia. La scrittura creativa coinvolge zone inconscie e conscie della mente; in ogni caso, per lo scrittore, come per ogni altro individuo, la propria organizzazione psichica si impernia sulla commistione di orientamenti geneticamente determinati e di contenuti esperienziali essenzialmente acquisiti nei primi anni di vita. I secondi possono esercitare la distorsione o anche la tacitazione dei primi: si pensi all'azione inibitoria attivata nell'anoressia nervosa rispetto alla motivazione biologica della fame, posto che in questo come in tutti i disturbi psichici vi sono, in misura variabile da disturbo a disturbo e forse da persona a persona, sia fattori innati sia fattori acquisiti risalenti appunto alla prima infanzia. Infanzie caratterizzate da erronei o assenti comportamenti genitoriali di accudimento, sono alla base di innumerevoli alte qualità di scrittura (da Leopardi a Beckett, per far solo due nomi). E sebbene non creda questa sia una condizione necessaria, è vero però che un certo grado di sofferenza psicologica e perfino di vera e propria nevrosi possono aiutare lo scrittore ad essere tale, particolarmente in poesia o nella narrativa fortemente orientata in chiave autobiografica. Va da sé che la sofferenza, senza il talento, non serve e che nei disturbi psichici più gravi (le psicosi), se la scrittura creativa è presente, ciò avviene malgrado l'attività psichica disgregante del disturbo (è stato il caso di Hölderlin). E non significa alcunché che, poniamo, un delirio schizofrenico possa a volte somigliare a una poesia sperimentale: lo schizofrenico, nelle sue produzioni deliranti, non può scegliere - come fa invece, più o meno consciamente, lo scrittore - quando dar inizio, come modulare, quando concludere le proprie elaborazioni.
   Come esistono stati dittatoriali, così esistono (e, soprattutto, in Occidente, sono esistite) famiglie particolarmente autoritarie. In alcune di queste gli stessi atti elementari del leggere e dello scrivere possono essere considerati attività vacua e inutile: è, per esempio, il caso narrato dal glottologo Gavino Ledda nel suo romanzo autobiografico Padre padrone (da cui il bel film dei fratelli Taviani). Cresciuto all'interno d'una società statica e patriarcale, come quella pastorale sarda di una volta, l'acquisizione della lingua italiana parlata e scritta (invece del solo dialetto), e l'amore profondo per lo studio, hanno rappresentato per Gavino, ormai adulto, la liberazione da un padre violento; questi, incarnando all'estremo i dettami d'una cultura primitiva e autoritaria, mosso peraltro anche dal "demone del peculio", l'aveva subito ritirato dalla scuola portandolo con sé in una capanna lontano dal paese perché qui lo aiutasse nell'attività di pastore e contadino: situazione, questa di bambini sottratti alla scolarità e costretti fin da piccoli a lavorare duramente, non rarissima in certe zone particolarmente arretrate d'Italia, fino almeno a venti-trenta anni fa (e tuttora presente in diverse parti del mondo). Per Gavino, analfabeta fino a vent'anni, l'amore per la parola è stato la molla che lo ha portato a decidere sia di laurearsi proprio in glottologia sia di raccontare in un romanzo la storia del suo esemplare percorso di liberazione.
   Secondo dati del 1999, il 5,4% degli italiani fra i sedici e i sessantacinque anni è analfabeta, una percentuale che rientra nella media europea e che in maggioranza riguarda ultraquarantacinquenni, ossia persone che avrebbero dovuto iniziare o hanno iniziato la frequenza scolastica prima dell'entrata in vigore della scuola dell'obbligo: aldilà di questa cifra relativa all'analfabetismo totale, tuttavia, "un terzo degli italiani adulti ha difficoltà di lettura, scrittura e conteggio" mentre "un altro terzo non procede oltre [rispetto a tali parametri] nei livelli di alfabetismo" (sono parole del Ministro della Pubblica Istruzione Tullio De Mauro che ha recentemente lanciato l'allarme sulle carenze italiane in tema di educazione permanente degli adulti: cfr. Mario Reggio, "De Mauro: italiani analfabeti dovrebbero tornare a scuola", La Repubblica, 28-11-2000). Nel mondo - sono dati del 1998 - gli analfabeti sono quasi un miliardo, un sesto dell'umanità, e in maggioranza si tratta di donne, entro molte società ancora vittime di forti discriminazioni nell'accesso all'istruzione: questa preoccupante cifra concerne soprattutto l'Africa subsahariana e - in misura minore - l'Africa settentrionale e il Medio Oriente. Nei paesi industrializzati residua comunque un 2% di bambini che non frequentano la scuola primaria.
 

Anche una forte percentuale di analfabeti, però, non ha mai impedito la nascita di buoni scrittori, certo in tal caso per lo più di sesso maschile e quasi sempre provenienti da ambienti sociali culturizzati e non meno che borghesi. Così, per le sorti dello scrivere creativo nelle società occidentali, un vero problema non consiste oggi affatto nella eventuale sopravvivenza (gravissima sotto altri punti di vista) di microcontesti degradati o nel persistere del semianalfabetismo di cui sopra (sebbene questo riduca la platea dei potenziali lettori) bensì nella geografia planetaria della globalizzazione. È noto come i modelli culturali provenienti dagli Stati Uniti tendano a diffondersi in tutto il mondo e al tempo stesso come la logica del Mercato sia stata fatta propria perfino dalla Cina comunista. È interessante dunque, come accennavo all'inizio di questo pezzo, guardare che cosa è accaduto negli ultimi anni all'editoria culturale statunitense, un'editoria che fino a non molto tempo fa era aperta a nuovi narratori, a una saggistica di qualità, agli autori stranieri, ai classici, in qualche misura anche ai poeti. Lo racconta André Schiffrin in un recente volumetto (L'Edition sans éditeurs, Paris, La Fabrique-Editions, 1999; tr. it., Editoria senza editori, Torino, Bollati-Boringhieri, 2000) in cui descrive come l'editoria culturale sia stata pressoché distrutta negli Stati Uniti e, in buona misura, in Gran Bretagna, con avvisaglie anche su altri scenari europei. Schiffrin ha vissuto in prima persona questa situazione: ha lavorato infatti dal 1962 presso la prestigiosa Pantheon Books, una casa editrice che sotto la sua direzione fu costantemente gestita (come sempre dovrebbe essere) a partire da un profondo interesse per la diffusione della cultura oltre che da ovvie motivazioni economiche - un editore è anche un imprenditore - che tuttavia non puntavano a guadagni smisurati e non evitavano di stampare buoni libri non particolarmente remunerativi che sarebbero stati compensati con altri (mai mediocri) dalle vendite maggiori: ciò finché questa e altre valide case editrici sono state inglobate in megaconcentrazioni editorial-massmediatiche fondate in primo luogo sull'industria dell'entertainment e dell'informazione. Per i nuovi illetterati padroni, ai cui avidi occhi il libro è una merce al pari d'una saponetta, quello che conta è il profitto immediato su ogni singolo testo al punto che l'utile globale deve essere particolarmente alto, fra il 12 e il 15% annuo rispetto al tradizionale 4% che accomunava almeno dagli anni venti le case editrici americane (si pensi che nel 1996, la più prestigiosa casa editrice europea, Gallimard, realizzava poco più del 3% annuo di utili). Questo sistema si basa quindi sui soli best sellers non prevedendo testi poco remunerativi; le tirature sono altissime ma le permanenze in libreria piuttosto ridotte: ogni nuovo libro deve vendere parecchio e in poco tempo; gli anticipi agli autori di best sellers per accaparrarsi i loro testi sono assai sostanziosi come corposa è la pubblicità; nella stessa logica sono nate catene di librerie fondate anch'esse sulla sola antietica del profitto ed impegnate nell'estromettere sempre più dal mercato le librerie tradizionali (recentemente Stephen King ha invitato più volte, in occasioni pubbliche, i lettori a frequentare solo librerie indipendenti ma il Mercato è più forte anche di lui).
   Quasi superfluo è a questo punto chiedersi qual è il livello qualitativo di quest'editoria. La parola è una sola: penoso. Poiché se è vero che un best seller può essere anche un capolavoro (come Il nome della rosa di Eco), la maggioranza di essi è inqualificabile. L'idea di questi capitalisti selvaggi è che non spetta all'editore - o meglio all'imprenditore che si occupa anche di editoria - raffinare il gusto del pubblico e che se il popolo, essendo bue, vuole robaccia, questa gli sarà data. Ciò vale nell'editoria libraria, in televisione, nella stampa quotidiana e periodica. Il sistema delineato, sia chiaro, ha preso anche clamorose toppate: altro che il 15% annuo (come nel caso dei tre milioni di dollari anticipati a Nancy Reagan per le sue memorie, cifra per larga parte non rientrata dato il patatrac delle vendite). Basta però che un singolo gruppo o una componente del gruppo raggiunga profitti magari proprio del 15%, che questo diventa l'obiettivo per tutti.
   In Europa abbiamo Murdoch che opera comunque a livello planetario e che ha usato bellamente il potere dei suoi giornali per ottenere favori dai politici sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna (dalla Thatcher): in questi paesi sono state aggirate a suo vantaggio le leggi antitrust. Se Murdoch fa affari con i politici, il nostro Berlusca fa politica direttamente: anche lui pensa che la gente sia stupida e che beva tranquillamente le sue favole (il vero problema è che potrebbe anche aver colto, quanto alla maggioranza degli italiani, nel giusto). In Italia la berlusconizzazione dei mass media è sotto gli occhi di tutti: nella televisione di stato come nei giornali più seri, specialmente nei loro supplementi settimanali. Quanto alla Mondadori lontani anni luce sono i tempi di Arnoldo. Domandina retorica: se vi fosse stato il Berlusca (con la sua odierna mentalità) avrebbe mai pubblicato le poesie di Cardarelli o di Saba?
   Tornando agli Stati Uniti, comunque, resistono o addirittura sono nate piccole case editrici di qualità anche se incontrano spesso problemi per la distribuzione delle loro generalmente basse tirature, per l'impossibilità di assumere tutto il personale che sarebbe necessario o per la difficoltà di sostenere i costi della pubblicità. Se l'Inghilterra è sulla stessa linea degli Stati Uniti (perfino la serissima Oxford University Press ha recentemente sospeso la propria collana di poesia contemporanea), in Europa (inclusa l'Italia) il processo è appena ai suoi inizi e, in paesi come la Francia, ci sono tradizioni culturali nazionali che possono fare in parte da barriera: ma, anche nell'editoria, il Mercato è un Moloch che non sarà molto facile non dico arrestare (operazione impossibile e quindi antistorica) ma indirizzare e temperare. Perfino il laburista Blair, per dire, avendo avuto l'appoggio dei giornali di Murdoch, ha cercato nel '98 di convincere (invano) il nostro governo a spianare al Paperone d'origine australiana (e di cittadinanza americana) la strada in Italia ma a difenderci quasi magicamente dal suo arrivo pareva in prima fila vi fosse, paradosso dei paradossi, il suo similissimo e 'amico' Berlusca a cui, come concorrenti, bastavano e avanzavano un De Benedetti o un Cecchi Gori. Sta di fatto che, l'anno dopo, a suon di miliardi, la News Corp Europe di Murdoch e Letizia Moratti è divenuta coproprietaria di Stream, la pay tv celebre oggi, fra l'altro, per il suo collegamento costante con la versione italica e berlusconiana della casa del Grande Fratello (canale 5). D'altro canto, per introdurre una flebile nota ottimistica, la Commissione europea del buon Prodi ha di fatto bloccato la fusione fra il colosso dell'editoria scientifica Reed Elsevier e il megagruppo Wolters Kluver, operazione che avrebbe creato una situazione quasi monopolistica in determinati settori dell'informazione: segno che l'Europa, più che taluni governi nazionali, è attenta a certi temi.
   Ora, guardando alla situazione italiana dall'ottica d'uno scrittore creativo, le speranze di vedersi pubblicato da un editore grande o medio sono legate ad almeno uno dei seguenti criteri: egli deve avere già pubblicato almeno un libro presso quell'editore o un altro di entità grande o media; deve essere un personaggio noto; deve avere conoscenze dirette o indirette nell'ambito dei vertici o comunque dei poteri decisionali di quella casa editrice (o di altra che sia in rapporto con essa). Il criterio della qualità varia da editore a editore e comunque non è del tutto perso, anche se conta poco o nulla da solo: ben diversa era la situazione al tempo dei Gettoni vittoriniani o dell'Almanacco dello specchio, quando la qualità rendeva di per sé verosimile la possibilità di vedersi pubblicati. Verosimiglianza non significava tuttavia sicurezza come ha dimostrato il caso Morselli. Fermi restando i criteri che ho sopra detto diminuisce le probabilità di pubblicazione il fatto che il testo sia di poesia o che appaia stilisticamente troppo complesso mentre le aumenta la presenza in esso di situazioni ed eventi che rientrino, per così dire, nella greve categoria del "famolo strano" (scrittori cannibali et similia).
   Anche da noi c'è, come ben sappiamo, una piccola e piccolissima editoria che sarebbe meno in affanno se vi fossero sovvenzioni pubbliche, limitate però ai piccoli editori di qualità o ai loro autori, sulla base del giudizio di commissioni competenti e disinteressate. In Francia agisce in tal senso, con prestiti a interessi zero o talora stanziamenti a fondo perduto, il Centre national du livre. Per questo settore dell'editoria un problema, inoltre, è spesso la distribuzione che dovrebbe prevedere per le basse tirature circuiti selezionati in termini di località e di librerie.
 

Vi è poi, naturalmente, la rete. L'editoria in rete appare a volte come la manna discesa dal cielo ma implica alcuni problemi: intanto, sebbene in Internet vi siano migliaia di testi gratuiti, gli editori, puntando anche a un profitto, dovranno - in parte già accade - far pagare la possibilità di scaricare un certo testo. I libri elettronici (gli e-books), però, dovranno - e potranno facilmente (per l'assenza dei costi di stampa, magazzino e distribuzione) - costare meno che nella loro versione cartacea, il che renderà precaria la sopravvivenza delle librerie tradizionali (colpite anche dalle librerie in rete come Amazon o Zivago). Mal di poco potrebbe pensare lo scrittore o il lettore ma nelle librerie migliori il bello, più ancora che comprare, è dato dal girellare, maneggiare, sfogliare. Noi siamo abituati al contatto fisico con i libri ed ecco che torna a proposito, per quanto dibattutissimo, il tema della loro possibile morte: in effetti, generazioni future che non avessero modo di conoscere quelle sensazioni, non ne sentirebbero neppure il bisogno. Si tratta di scenari in ogni caso lontani nel tempo e che mi piace pensare potrebbero anche non avverarsi. Fra l'altro esistono da qualche tempo macchine (oggi costose) che consentono facilmente di convertire gli e-books in libri cartacei: semplici ma pur sempre libri (stampati fronteretro, incollati, con una loro copertina). Eco ha osservato anni fa come, sperduti in un'isola deserta, potremmo comunque leggere un libro sopravvissuto al naufragio ma non un Cd-rom. Al tempo stesso, però, è opportuno considerare che se lunga è la storia del libro - inteso sia nell'aspetto che ci è familiare (risalente a una ventina di secoli fa) sia sotto l'antica forma di rotolo papiraceo - molte migliaia sono gli anni del primato d'una diversa modalità di espressione e comunicazione culturale, l'oralità (fra i cui esiti vi sono stati ad esempio i poemi omerici o il pensiero filosofico fino a Socrate): ciò per significare che la tradizione del libro cartaceo, al pari di ogni fenomeno culturale, potrebbe senz'altro incorrere in un radicale declino, sostituita dal predominio degli e-books (sì stampabili ma in fogli sciolti la cui apparenza non è certo quella d'un libro), sopravvivendo in circuiti minimi specializzati o nelle scelte di qualche appassionato magari attrezzato con una delle macchine editoriali casalinghe che ho prima citato. Oltretutto, è verissimo che leggere al computer è più scomodo e stancante che leggere un libro; tuttavia sono entrati recentemente in commercio sia programmi che migliorano la qualità visiva dei testi elettronici editi in un particolare formato sia minicomputer abilitati alla sola lettura di e-books, in pratica maneggevoli tavolette in grado di racchiudere un'intera biblioteca: ulteriori passi d'un percorso che potrebbe portare o meno alla scomparsa o quasi dell'editoria cartacea.
   Internet consente inoltre di liberarsi degli editori. Stephen King ha fatto recentemente un intelligente esperimento in tal senso: nella primavera 2000 ha immesso in rete, sotto l'egida del suo editore Simon & Schuster, la sua novella Riding the Bullet, vendendone in questo modo oltre cinquecentomila copie digitali; in seguito, ha ripetuto - ma questa volta in proprio - la stessa operazione con il suo romanzo The Plant a un dollaro a capitolo, ottenendo anche in questo caso un grande successo. Tuttavia: il secondo evento è stato per così dire trascinato dal primo; il battage massmediatico è stato imponente; la popolarità dell'autore ha giocato un ruolo fondamentale. Nel mare magnum di Internet, ove c'è tutto e il contrario di tutto, gli stessi editori devono darsi da fare perché il loro sito sia conosciuto ed attiri potenziali clienti; figuriamoci il singolo autore. Naturalmente i motori di ricerca possono dare una mano. Per esempio un testo in rete semplicemente intitolato o sottotitolato Poesie, o che abbia questa parola al suo interno, sarebbe verosimilmente segnalato a chiunque cercasse questo termine; ma non da solo: per esempio, nella directory del motore di ricerca di Virgilio, insieme ad altri 499 siti (ottobre 2000). Un appassionato di poesia (se ha cercato la parola in questione è da supporre lo sia) ne consulterà due o tre, poi forse - se è un appassionato competente - l'operazione gli verrà a noia. Di fatto è più probabile che al sito del nostro poeta pervengano coloro, se esistono, che sono già motivati a leggere qualcosa di lui e molti di questi saranno a loro volta scrittori che hanno già immesso o hanno intenzione di immettere loro testi in rete.
   Ma per lo scrittore creativo una vera e propria goduria appaiono i siti specializzati nell'accogliere anche testi di autori esordienti e comunque non famosi: all'estero esistono da anni, da noi sono pochi, più recenti eppure già ben conosciuti. Consultarli attesta che, come ho appena fatto intendere, in rete non sussistono veri criteri qualitativi, se non da parte di quei siti specializzati stranieri che operano una seria selezione di quanto ricevono, di alcune riviste letterarie elettroniche particolarmente qualificate (come l'italiana Uroboro) e di taluni editori di e-books (fra l'altro, nell'ottobre 2000, alla Fiera del libro di Francoforte è stato per la prima volta assegnato il premio per il miglior libro elettronico: lo ha vinto, per la categoria fiction, Paradise Square di E. M. Schorb, edito da Denlinger's Publisher). Sia chiaro, anche nel Bel Paese troviamo in Internet buoni lavori creativi indipendenti, specialmente quando l'autore, non solo ha talento, ma in più sa sfruttare le potenzialità del mezzo, facendo accortamente risorgere dal suo infiorato sepolcro e tornar giovinetta la vetusta poesia visiva: è quanto hanno fatto Giacomo Verde, Lello Voce e Mauro Lupone in Qwertyu, notevole opera di net-art. Dirò di più, in rete potrebbe esservi da qualche parte già uno sconosciuto capolavoro ma sicuramente, fra i nuovi testi creativi che vi compaiono e vi compariranno, in maggioranza sono e saranno mediocri, come accade per quelli spediti a riviste e editori cartacei (ed anche per una quota non modesta di quanti giungono a pubblicazione). Del resto, basta accedere a un noto sito specializzato, di cui non farò il nome per evitargli ulteriore pubblicità, e cliccare su un paio di nuovi "inserimenti" per rischiare lo choc (sempre che il nostro gusto estetico sia in buona salute). Nanni Balestrini, precursore della poesia informatica col suo Tapemark del '61, pensa che la rete farà selezione fra i siti letterari affidabili e quelli meno seri. Io non ne sono convinto, la rete procede per accumulazione, non darwinianamente: vari altri buoni scrittori andranno in Internet e vari buoni navigatori ne leggeranno i testi, ma un'ulteriore massa di cattivi scrittori accederanno a loro volta alla rete, si leggeranno fra loro e attireranno legioni di loro consimili. Così, per le sorti (in senso lato) della scrittura creativa, la rete è un territorio di estremo interesse ma non quella panacea che a volte si pensa.
 

* Nota. Uso qui il concetto di creatività in senso stretto, non includendovi cioè la scrittura saggistica che deriva sì anch'essa da un'attività psichica di tipo creativo ma nella quale - da un punto di vista linguistico - la funzione estetica, pure spesso presente, non è la funzione principale in atto. Ci tengo inoltre a precisare che, quanto ai temi di attualità che affronto, questo pezzo è aggiornato al novembre 2000. [Torna all'inizio]

 


 
Inizio