Indice L'area di Broca
 
L'Area di Broca
Indice n.73-74
 

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"L'area di Broca", XXVIII, 73-74, 2001

TERRA

 

Eugenio Lucrezi

Del mettere e del togliere terra
 

Di partire non se ne parla, ogni giorno sperano che arrivi il cavaliere e con lui la liberatoria del daymo*, ma alla porta della locanbussano soltanto mercanti e monaci itineranti, e sui moli dove vanno a prendere il fresco di sera parlano solo con i pescatori e con i bambini che si tuffano a sbrogliare gli ami impigliati.
   È ormai un anno che ogni mattina il superiore, con lena ogni volta rinnovata, s'industria di raccogliere i missionari per dire la messa, ma quelli si disperdono sempre più velocemente dopo la sveglia, alcuni addirittura passano la notte fuori. Uno dorme da mesi con una ragazza convertita, un altro con una shinto*.
   Atanasio si sente come liberato, adesso che la missione è stata chiusa. Nelle mille isole Dio è stato accolto senza imbarazzi, ma il paradiso in cui i giapponesi l'hanno sistemato è troppo affollato per non imbarazzare lui, giovane prete che ha faticato già abbastanza a figurarsi un Dio uno e trino.
   Cosa può fare un sacerdote in una terra straniera, a tre oceani di distanza da casa e senza una Parola da diffondere? Ogni tanto Atanasio lascia il villaggio attraversando un lungo sentiero che taglia una foresta di bambù neri. Uscito dal folto che s'interrompe di colpo non si volta, sa che le cime ondose degli arbusti gli nascondono i moli e le case. Camminando costeggia le fumarole che punteggiano la campagna, circondato da nuvole bianche si addentra tra i filari dei mandarini. Se incontra la ronda dei cavalieri del daymo s'irrigidisce nell'inchino. Salita la prima collina, si abbevera ad una fonte assieme alle oche. Alla seconda altura beve assieme ai pavoni, che lo salutano aprendo la ruota iridescente con un fruscio rumoroso. Arrivato alla terza collina, la più alta, la sale tutta e si ferma alla sepoltura del suo omonimo, che riposa ormai da un anno tra le zolle grasse, esattamente nel posto dove ha trovato il martirio per mano dei soldati di Hideyoshi, il monarca nuovo che ha ricusato i cristiani.
   Atanasio s'inginocchia e prega sul tumulo di terra che si allunga, appena rilevato, accanto a un immenso covone. Prima o poi finisce con il pensare che il suo omonimo il martirio, più che trovarlo, se l'è cercato, e che nessun soldato dell'imperatore ha in realtà alzato la mano contro di lui. Però poi sempre ripensa all'incanto di quelle bianche ossa, lo prende una vertigine breve e in cuor suo rimprovera il vescovo che non inoltra alla Compagnia e a Roma la domanda di beatificazione, rimprovera se stesso perché non venera quanto merita il confratello.
   Ricorda il seppellimento di Atanasio alla presenza del daymo che si profonde in scuse mescolando parole portoghesi e olandesi, s'inchina ripetutamente assieme ai suoi dignitari e intona in latino il de profundis assieme ai gesuiti, mentre i contadini, le oche e i pavoni fanno cerchio.
   Rivive la scena dell'uccisione, rivede le schiere disarmate dei campagnoli che passano e ripassano sull'aia della missione e buttano giù gli steccati, mentre i cavalieri vestiti di ferro e di seta che li guidano accompagnano i cristiani piangenti lontano dalla casa. I confratelli sono ormai fuori dai recinti e chiamano più volte Atanasio, che non risponde e resta in ginocchio tra le rovine, gli occhi al cielo, la croce sollevata. I contadini cercano di smuoverlo una due, tre volte, inutilmente. Alla fine un vecchio lo colpisce con un bastone sul fianco, come un carrettiere che sferza un mulo impuntato; va via, torna, lo strilla acutamente e gli dà un colpo più deciso; si allontana ancora, torna un'ultima volta accompagnato da un contadino più giovane che lo tramortisce come obbedendo a una volontà più forte della sua, perché soggiogato dallo sguardo imperioso del martire.
   Mentre prega inginocchiato, il giovane prete ripensa poi alla ricognizione effettuata dai confratelli sulla seppellitura tre mesi dopo quel giorno doloroso, nel chiarore incerto di un'alba brumosa e in gran segreto, nel corso della quale avrebbero voluto toglierlo dalla rozza cassa inchiodata in cui era stato adagiato e finalmente metterlo nella bella bara di ciliegio preparata dai frati carpentieri. Risente la meraviglia e come allora gli si ferma il fiato quando rivede quello che tutti, a cerchio inginocchiati sullo scavo, videro: uno splendente scheletro, bianco come la più pura delle anime innocenti e perfettamente composto, ridotto in un battibaleno come una preparazione di quelle che si ammirano nei gabinetti dei dottori in medicina, o nei teatri anatomici, vale a dire del tutto mondo delle putredini e anche delle sporcizie residuali e terrose che sarebbe stato lecito attendersi di trovare attaccate alle ossa, dopo una così breve permanenza nella terra.
   Così da quella povera cassa nessuno aveva osato toglierlo, e la bara di fine ciliegio, riportata indietro, aveva accolto poco dopo un soldato della guarnigione imperiale morto di dissenteria. Era stato il Signore a spogliare così perfettamente il corpo di Atanasio dalla sua transeunte veste terrena? Erano stati i vermi nipponici, perfezionisti e famelici?
   L'Atanasio vivo e inginocchiato se lo chiede tutte le volte che viene sul tumulo del suo omonimo.
   Un giorno viene raggiunto sulla collina da un monaco itinerante assai venerato dai contadini, un bodhisattva* gentile che conosce numerose parole di portoghese. Atanasio parla, se pure un po' a fatica, il giapponese dei contadini e così, a stento, ma senza cerimonie e con profitto, si mettono a parlare.
   Il monaco gli dice della sua amicizia con il prete sepolto, e resta molto colpito dall'omonimia. In particolare lo impressiona che un Atanasio vivo venga a meditare sui resti di un Atanasio morto. Si dice ammirato per la devozione, ma trova sconveniente che un corpo giaccia disteso nella terra. Quando il prete si mette a parlare della resurrezione della carne, il monaco gli fa cenno di seguirlo, e lo accompagna fino ad una successiva altura, dove, seminascosto tra i salici, si erge un padiglione di preghiera fatto di legno rinsecchito e consumato dal tempo.
   Il padiglione che vedi fu costruito dai monaci che portarono la parola del Gaitama Buddha in questa terra, dice il bodhisattva. Qui, prima di te, condussi il prete Atanasio per dirgli che la resurrezione è male, e che il giusto cerca la via del riposo senza risveglio. Nel dire questo, forse per la foga e senza accorgermene, feci sparire un mucchio di terra sotto al tempietto, che cadde brevemente e si riassestò scricchiolando alcuni palmi più in basso. Così sottraendo materia all'universo, ne favorivo l'espansione illimitata, e dunque il finale spegnimento e l'eterno riposo. Ma Atanasio mi rimproverò severamente, anche se con rispetto. Disse che l'eternità che fa seguito al tempo è fatta di luce che sempre arde. Curiosamente disse pure che nella contemplazione di questa luce inestinguibile consiste il vero riposo degli occhi. E mentre parlava ricomparì, senza che lui neanche guardasse da quel lato, il mucchio di terra sotto al padiglione, che in un sobbalzo riguadagnò verso l'alto i palmi da poco perduti. Credo anzi che ci fosse anche più terra di quanta ne avevo tolta io, perché il padiglione si sistemò un po' più in alto di prima.
   Il monaco racconta all'Atanasio vivo che quella terra, aggiunta alla base del tempietto, nella foga dell'enunciazione, da un Atanasio oggi morto ma allora ben vivo, incrementava la massa del cosmo, appesantendolo e dunque frenandone l'espansione, e che pertanto ne determinava il futuro collasso, e la successiva resurrezione di luce.
   Più volte ci siamo incontrati presso questo piccolo tempio, dice il monaco itinerante. Tutte le volte, condotti dalla forza di verità delle rispettive visioni, io e il monaco cristiano abbiamo argomentato in vivo contraddittorio. Accanto a noi, o alle nostre spalle, o in qualche caso, se parlando ci allontanavamo dalla cima della collina, a distanza di molti passi, il tempietto saliva alle sue parole, smottava alle mie. Le povere assi di legno rinsecchito gemevano e scricchiolavano tutte le volte, ma, come vedi, hanno retto la prova.
   Detto questo, il monaco saluta il nuovo amico e si allontana verso il sole calante. Atanasio prende a sua volta la via del villaggio e della locanda, e quando entra nel folto dei bambù non può fare a meno di rimproverare, in cuor suo, l'omonimo defunto.
   Egoista, pensa rivolto allo scheletro bianco, sei andato a cercare la tua santità, ma lasciando al bodhisattva l'ultima parola sulla terra che regge il padiglione non ti sei comportato come un soldato di Cristo. Credi forse che quel testa pelata non abbia approfittato del tuo transito per lasciare il tempietto e, Dio ci salvi! l'universo tutto così come gli ha suggerito il suo Gaitama Buddha?

* il daymo è un feudatario giapponese; lo shinto è la religione tradizionale di quel paese, mentre un bodhisattva è un monaco santo buddhista.
 


 
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