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L'Area di Broca
Indice n.76-77
 

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"L'area di Broca", XXIX-XXX, 76-77, 2002-2003

CONTRO

 

Paolo Pettinari

Città malate
(divagazioni di uno scrittore saltuario)

 

Confesso che non mi attira la campagna. Cresciuto in riva al mare, tra spiaggia e ferrovia, in una periferia dell'Adriatico colorata di nebbia e tamerici, chiassosa d'estate e calda del suo brodo marino, musicale d'inverno coi suoi ritmi d'onde, di bora e di rotaie, ho sempre girato lo sguardo alla città. Quella piccola, prima, dov'era la memoria del passato, pietre e parole che raccontavano di celti e latini, pentapoli e duchi, mercanti levantini, cantanti d'opera, anarchici. Dove la solitudine assoluta del mare si attenuava in geometrie di vicoli e portici e palazzi; e dove anche i progetti e i sogni costruivano la propria geometria nei pomeriggi di chiacchiere. Quella più grande, poi, dove immaginavo di poter "seguir virtute e canoscenza", ricca com'era di suggestioni vaste, luogo in cui gli spiriti più grandi della nazione si erano dati convegno da secoli, città di rinascita e scienza, di greve tradizione ma pure di rivolta. Ciò che attirava il liceale di trent'anni fa era infatti la città delle avanguardie e delle battaglie politiche, quella delle riviste, dei futuristi, di Montale e Gadda e Vittorini e tutti gli altri, quella dei partigiani, delle comunità religiose di base, delle proteste studentesche, una Parigi piccola piccola, insomma, ma più vicina, che... stava già scomparendo. Come stavano scomparendo, nello stesso volgere di anni, tante altre città italiane, inaridite da un singolare effetto serra che ne filtrava via l'anima.
   E' probabile, lo dico con il senno di poi, che il liceale di trent'anni fa, nella sua ansia di scappare dal natio borgo marino avesse immaginato mondi già allora inesistenti. Eppure, guardando a ritroso gli ultimi venticinque anni, non riesco a togliermi di dosso la sensazione che l'humus cittadino si sia in qualche modo inaridito, che le città non siano più riuscite a catalizzare le energie intellettuali come nei venticinque anni precedenti, e che ora l'ambiente cittadino non sia più così fertile e culturalmente produttivo come lo è stato fino a pochi decenni fa.
   Non sono un sociologo né uno storico: potrei definirmi uno scrittore saltuario, visto che le mie opere complete stanno tutte in un centinaio di pagine. Tuttavia vorrei cercare di capire, attraverso una semplice riflessione e qualche ragionamento, il perché di questa evoluzione, ammettendo (ma non è detto) che sia reale. Anche perché, se lo è, la prospettiva di dover rivalutare la campagna mi inquieta non poco.
   Riflettiamo, allora. Gli ambiti della produzione (e riproduzione) culturale sono essenzialmente tre e sono fra loro strettamente interrelati. Uno potremmo definirlo come accademia, ed è il sistema della scuola, dell'università e della formazione in genere, quello che ha il compito di sistematizzare le conoscenze, trasmetterle, modificarle e, se possibile, arricchirle. Un altro è l'industria, cioè il sistema della produzione, dove la scienza si tramuta in tecnologia e le conoscenze in merci, dove la perizia tecnica, l'innovazione e la capacità di comunicazione sono alla base della possibilità stessa di produrre in modo continuativo. Un terzo ambito è quello della libera creatività, vale a dire il sistema dell'arte, in cui è possibile simulare con vari mezzi (la parola, l'immagine, il suono, le formule matematiche, ecc.) dei mondi irreali, ma tuttavia concepibili, che ci offrono sempre nuove informazioni sui modi di interpretare il mondo e la vita, accettandone o infrangendone le regole.
   Da sempre questi tre ambiti si sono sviluppati nel modo più fertile nelle città, nelle capitali, nelle metropoli. Anche perché è dentro di esse, all'interno del reticolo urbano e negli spazi adiacenti dei suburbi, che la produzione materiale e culturale si sono incontrate: nei mercati, nelle scuole, nei templi, nei porti, nelle associazioni, nei centri di potere, perfino nelle taverne, intrecciandosi, stimolandosi a vicenda, combattendosi, innovando. La città è sempre stata il luogo in cui era possibile sviluppare e soprattutto proporre, comunicare, scambiare idee e prodotti, spirito e merci, cultura e denari. Perché la città è sempre stata un luogo... accogliente, dove chiunque, principe o baro, poeta o mercante o tagliagole, poteva trovare dimora o rifugio, costruire il proprio successo o sopravvivere al destino avverso o addirittura nascondersi. C'erano luoghi per tutti dentro il perimetro urbano: quartieri principeschi, altri di buon decoro, altri dignitosamente poveri, altri ancora fatiscenti. Palazzi e cattedrali dividevano lo spazio con le suburre e gli angiporti più malsani. Duchesse, puttane, filosofi, facchini, banchieri, fioraie, maestre, operai, fattucchiere, studenti, dottori, levatrici, lavandaie, artisti, impiegati, commesse, ladri, notai... Chiunque poteva trovare con buona facilità un luogo dove esercitare il proprio talento o dove rifugiarsi, non era difficile. Se una parte della città ti respingeva, ce n'era un'altra lì vicino, non nei sobborghi più lontani, che ti accoglieva.
   Questa commistione di alto e basso e medio, di sterile diamante e fertile letame (per citare De André), oggi tende sempre più a sparire dalle città italiane. E questo mi sembra particolarmente visibile in quelle che per secoli hanno avuto la funzione di centri (o addirittura capitali) di cultura. Penso a Roma, Milano, Torino, ma anche a Genova, Napoli, Bologna e soprattutto a Firenze e Venezia. Qui è in atto ormai da decenni un processo di espulsione sistematica di tutto quanto non abbia le forme o l'aspetto della merce in vetrina, di tutto quanto cioè non sia ben confezionato, ben esposto, dotato di un prezzo, acquistabile (ma non da tutti) e che comunque dia un guadagno. Questo processo di espulsione non riguarda le cose, ma colpisce soprattutto le persone e le attività, e credo che abbia un effetto rilevante sulla crisi delle città come luogo di produzione di cultura e innovazione.
   Trovare una casa, un alloggio, un posto dove abitare in una delle città nominate sopra è oggi un'impresa titanica per chi non abbia un reddito medio-alto o almeno un salario sicuro e regolare. Quale giovane squattrinato potrebbe oggi permettersi di pagare un affitto nel centro di Milano o Firenze o Roma? Quale giovane donna o giovane uomo, ricchi solo d'idee e di voglia di fare, potrebbe immaginare di andare a vivere all'ombra di una cattedrale o di una torre, su un lungofiume o in un'antica piazza delle nostre città? Chiunque debba vivere con lavori precari (o flessibili o atipici, come si dice oggi con ghignante ipocrisia), cioè ben più della metà di chi ha meno di trent'anni, viene respinto verso le periferie, verso i quartieri dei palazzinari, verso le discariche, gli svincoli, i depositi, i campi dei nomadi e le baracche dei clandestini, dove le case sono meno ambite e ti chiedono di pagare un po' meno. Quasi sempre territori abitati da un'umanità vera: molteplice e misteriosa, cosmopolita, sradicata, solidale e feroce, umanissima. Sono questi i luoghi che hanno sostituito i vicoli e le piazze delle città storiche come luogo di accoglienza e rifugio, luoghi senza passato e senza storia, dove le storie riescono a fatica a lasciare una traccia. Fra i primi a comprenderlo da noi è stato Pier Paolo Pasolini, e penso ad alcuni suoi film come Mamma Roma, Uccellaci e uccellini, La ricotta, dove questi territori e questa umanità vengono raccontati e si fanno storia, ma passando attraverso la lente interpretativa della cultura urbana, che ha offerto all'autore i modelli di Mantegna, Giotto e Pontormo da un lato, del marxismo dall'altro. L'artista, cioè, per rappresentare, narrare, cantare ciò che è vivo e attuale ha tuttavia bisogno di confrontarlo con la propria tradizione culturale, tradizione che diviene fertile se viene sentita come parte integrante della propria vita e del proprio spirito, qualcosa che sia possibile sperimentare ogni giorno, accettare o combattere in ciò che tocchiamo, in ciò che vediamo e sentiamo, in quello di cui ci nutriamo, nello spazio, nei suoni, nei colori che ci circondano e che condizionano il nostro modo di essere e di pensare. Il centro storico di una città è tutto questo e l'artista che ne viene allontanato o respinto viene privato della possibilità di vivere alcuni aspetti fondamentali della propria tradizione culturale. Oggi le città accettano volentieri gli artisti già affermati, preferibilmente avanti con gli anni e pieni di soldi, ma anche i vecchi tromboni sistemati in un impiego accademico, e per tutti costoro sono prodighe di premi e buffe onorificenze. Peggio per loro: città e tromboni, che respingendo chi può portare innovazione e idee creative finiranno per trasformarsi in siti archeologici.
   L'accenno ai tromboni accademici offre lo spunto per riflettere su un altro aspetto della decadenza culturale delle città. Da secoli queste ultime godono del prestigio più o meno grande che deriva loro dall'essere sedi di università. Orti di sapienza, giardini d'ogni sapere, fabbriche di conoscenza, le università sono anche una calamita di giovani cervelli, centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi di vario talento e spesso incerte aspirazioni, che non di rado (è la mia stessa esperienza) lasciano il luogo d'origine per andare a studiare in città. Si tratta di una vera ricchezza di spiriti e di corpi che spesso è accolta con sospetto: sfruttata sul piano materiale con esose richieste d'affitto, lavori sottopagati, un giro d'affari commerciale non indifferente; emarginata sul piano intellettuale, perché la cultura giovanile, quando è originale e non prodotta dalle agenzie pubblicitarie, è comunque antitetica alla cultura delle merci e delle vetrine. E' cultura delle aspirazioni, degli aneliti e delle utopie, cultura delle copie e fotocopie, delle piraterie, cultura dello scambio prima che della compravendita, dello scontro e confronto, del rumore anche, del casino, dei muri scritti e dipinti, dei corpi scritti, dipinti e infilzati. Ma anche di una più profonda comunione con la natura, di curiosità per chi è diverso... Una nebulosa culturale, insomma, che non c'entra nulla con le mortifere esibizioni di creatività da zombi delle varie vie Condotti o Montenapoleone o Tornabuoni, e che si vede respinta dall'anima ormai rapinosa e grassatrice delle varie piazze San Marco e Navona e Signoria.
   Questo succede fuori dall'accademia, ma dentro? All'interno delle università (ma lo dico solo per sentito dire, perché dal giorno in cui ho discusso la tesi nel 1981 non vi ho più messo piede) sembra che ci si trovi in una specie di limbo dove c'è grande spazio per ignavi e cortigiani e dove invece i talenti vengono ostacolati in ogni modo finché non si adattano a qualche compromesso o se ne vanno. Come se allignasse una sorta di imperfezione originaria o genetica che ha prodotto malattie endemiche ed epidemiche come clientelismo, sistema baronale, fuga di cervelli. Andando così a stampare un marchio di infamia, talvolta leggero talvolta anche soltanto subliminale, pure su coloro (e ci sono, perché ne ho conosciuti, li ho avuti come professori e ne conosco) che hanno insegnato e insegnano nelle nostre università con pieno merito e con ottimi risultati. Tuttavia nessuno ci toglie dalla testa il tarlo che anch'essi, che avrebbero meritato di essere lì perché capaci o addirittura geniali, si siano dovuti chinare a chiedere l'aiuto o la benevolenza di qualche barone per superare un concorso di dubbia correttezza. Se fra i docenti c'è così tanto spazio per la cultura cortigiana e clientelare, non ci si può stupire se molti di loro concepiscono la formazione come semplice riproduzione del sapere, enumerazione del già noto, copia di una copia di una copia, obbligando gli studenti a compilare bibliografie e riferire pensieri altrui, ma scoraggiando l'espressione di un pensiero critico originale o il lavoro finalizzato a progetti. Forse perché eventuali idee originali e innovative di una giovane studentessa o di uno che non si è ancora neanche laureato sono viste come pericolose. E una volta laureati o addottorati bisognerà aspettare anni e anni di precariato, di arruffianamenti, di servitù per arrivare a 50 anni a fare il "giovane ricercatore". E' ovvio che tanti decidano di andare all'estero contribuendo, incolpevoli, al processo di desertificazione culturale che sempre più minaccia il nostro paese.
   Se le università producono meno cultura, se chi vi lavora e insegna abdica alla sua funzione formativa e produttiva, anche le città che le ospitano, che già tendono a scoraggiare, soffocare, emarginare la creatività culturale dei giovani studenti, risulteranno spiritualmente più povere, più grette, capaci solo di attirare greggi cui vendere immagini del proprio passato, senza progetti per tornare protagoniste nel produrre idee.
   Produrre: ecco una parola chiave per un altro punto dolente nella crisi delle città. L'industria, il mondo della produzione manifatturiera, della trasformazione di materie prime, della realizzazione di macchinari, ha subito delle trasformazioni di grande significato. Da una parte, così com'è successo per le persone (e i due fenomeni sono fra loro sicuramente connessi), l'industria è stata sempre più allontanata dalle città. Fabbriche, capannoni, depositi, centrali, magazzini, si sono spostati sempre più lontano dalle mura urbane, in valli e pianure che si sono riempite di parallelepipedi e svincoli e autostrade. Dall'altra parte, a questo allontanamento non è corrisposta una nuova creatività: molte grandi industrie italiane, e la Fiat è solo un esempio, sono entrate in crisi come se avessero esaurito la propria spinta propulsiva o addirittura il proprio ciclo vitale. Come se il non partecipare più così da vicino, o addirittura da dentro, alla vita e allo sviluppo della città che l'ha originata, il non essere più parte di un progetto comunitario, avesse tagliato un cordone ombelicale che assicurava nutrimento. Naturalmente certi cambiamenti non potevano non avvenire: avere delle grandi officine o stabilimenti, acciaierie, raffinerie, cementifici alle porte o persino dentro una città è ormai diventato insostenibile e intollerabile per la salute di chi ci vive. Tuttavia le città, almeno dal XII secolo in poi, si sono sempre nutrite anche di questa simbiosi. Mancando tale nutrimento si è impoverita una parte importante del patrimonio urbano: la cultura del saper fare. Forse è anche per questo che oggi nelle città si realizza pochissimo e con gran difficoltà. A Firenze hanno discusso 10 anni su come ripavimentare una piazza e alla fine è venuto fuori un obbrobrio. Oggi si sta ripetendo la stessa cosa con una pensilina per entrare agli Uffizi. Se lo stesso atteggiamento odierno lo avessero avuto i fiorentini di 700 anni fa, il fabbricone del duomo (un pugno nell'occhio niente male con le sue geometrie marmoree dissonanti nel mare dei tetti e sullo sfondo dei colli) non sarebbe mai stato realizzato.
   Da questo divorzio ha perso qualcosa la città (pur avendoci guadagnato la salute fisica dei cittadini) ma ha perso qualcosa anche l'industria. Questo allontanarsi dai luoghi dello scambio e del confronto ha probabilmente acuito certi difetti sempre più evidenti negli ultimi due decenni: ricerca insufficiente, diminuita volontà di progettazione, scarsa capacità d'innovazione. Sembra mancare una visione di lungo termine, in un sistema dove tutto mira al profitto immediato. Certo sarebbe azzardato affermare che la crisi di certa industria italiana dipenda dal fatto che le fabbriche si sono separate dalle città, ma non mi pare così fuori dal mondo ipotizzare un qualche collegamento e far notare le coincidenze.
   Le stesse coincidenze rilevabili nella crisi di quella che ho chiamato libera creatività, dove si nota una certa difficoltà a fare emergere nuovi contenuti, bilanciata da una ricerca spasmodica di originalità, che è poi banalità, superficialità, disperato e disperante tentativo di far parlare di sé. Gran parte della produzione artistica odierna è come ossessionata dal mercato, dal poter essere presente su qualche bancarella o vetrina, qui ora e subito. Come nell'industria, così nell'arte sembra davvero mancare una visione di lungo termine.
   In questo scenario stagnante la città ha ancora una funzione propulsiva? L'industria se ne allontana, gli artisti ne sono cacciati, l'accademia si dibatte in una crisi di cui non si intravede la fine: cosa rimane allora? La risposta è duplice: rimane molto e poco. La città funziona ancora come luogo di incontro e di scambio, ma vi si espongono e vendono e comprano merci prodotte altrove, ideate altrove e che verranno utilizzate altrove. Funziona come luogo di mercato per merci che spesso nemmeno passano per le sue strade, un mercato virtuale fatto di parole che muovono cose da un lontano luogo di produzione a un altrettanto lontano luogo di consumo, un mercato fatto di scambi finanziari. Funziona come fiera delle idee, che ogni tanto si incontrano e si scontrano in simposi accademici, congressi politici, forum sociali o manifestazioni di strada. Funziona anche come supermercato della cultura, dove è più facile comprare libri, dischi, video, frequentare gallerie d'arte, andare a un concerto o a teatro (basta poterselo permettere). C'è però una fortissima tendenza a emarginare tutto ciò che metta in pericolo la conservazione dell'esistente o che non sia evento spettacolare e promozionale. Sono sempre meno le librerie che offrono prodotti non omologati o globalizzati: entri in una libreria di Milano o Bologna o Napoli e trovi le stesse cose, gli stessi autori, gli stessi editori, le stesse collane. Nei negozi di musica e video non mi è mai capitato di vedere una sezione con dischi auto-prodotti o video di artisti indipendenti. Se un gruppo di grassi professori decide di organizzare un paludato simposio su un qualsiasi poeta ermetico (talvolta pure emetico) onusto d'anni e di gloria, trova subito saloni, microfoni, patrocini e soldi delle nostre tasse. Se un gruppo di ragazzi vuole incontrarsi per parlare di graffiti murali, o di pace e nonviolenza, o per organizzare un festival di cortometraggi, a volte deve ridursi ad occupare una fabbrica dismessa. Se poi qualcuno ha l'idea di organizzare un convegno internazionale sulla pace, come è successo a Firenze nel novembre del 2002, e le istituzioni locali concedono degli spazi (anche perché, dopo tutto, un convegno internazionale è una bella pubblicità), ecco che subito i soliti tromboni si sollevano dai propri sepolcri imbiancati a concionare contro un'iniziativa che può disturbare la soddisfatta contemplazione di se stessi.
   Così chi ha idee, progetti, talento si vede spesso rifiutato dalla città, emarginato, interdetto. E va via, si rintana nei quartieri satellite, sempre più fuori, dove le torri e i campanili sono tralicci, dove i vicoli sono tangenziali e rotatorie, dove cupole e piazze e cattedrali sono mega-centri commerciali, dove i resti del passato sono ciminiere spente e capannoni diroccati. E' in questi territori di confine che, sempre più, scorre la vita reale, in una città diffusa senza centro, perché il centro si va svuotando di anime e di anima*. Ma il vuoto lasciato da chi è spinto via non viene occupato soltanto da uffici e negozi e turisti e nuovi e vecchi ricchi. La riduzione del tessuto urbano a merce e vetrina è solo un aspetto di questa evoluzione. C'è tutta un'altra umanità, ancor più emarginata di chi è spinto nei sobborghi, che silenziosamente si aggira e sosta nelle stazioni, nei sottopassaggi, sotto gli archi dei portici e dei ponti: senza tetto, clandestini, barboni, punk-bestia, disadattati, folli, talvolta fieri talvolta vittime della propria differenza. Ma sempre antagonisti della cultura urbana, sempre testimoni di un anarchismo radicale che accetta soltanto di essere, rifiutando di comunicare, spiegare, razionalizzare, produrre. Così la città è divenuta luogo di doppia emarginazione: allontana chi può mantenerla un organismo vivo; tollera al suo interno chi silenziosamente la nega rimanendo visibilmente un estraneo.
   Volenti o nolenti la situazione è questa: la vita reale e produttiva oggi è fuori dalle città. Vengono da fare dei paragoni un po' arditi, riflessioni paradossali ma, forse, non del tutto prive di fondamento. Come alla caduta dell'Impero Romano popolazione, produzione e cultura (quel che ne restava) fuggivano dalle urbes per trovare rifugio nelle villae, nei monasteri, più tardi nei castelli, così in questo presente da tardo impero, denso di piccoli cesari e pretoriani, di sgherri e cortigiani, ci troviamo a vivere una situazione che ha qualche sorprendente analogia. Che siano già arrivati i barbari e non ce ne siamo resi conto?

* Confrontando i dati dei censimenti 1991 e 2001, si ricava che in dieci anni Milano ha perso (all'incirca) 170000 abitanti, Torino 100000, Genova 75000, Bologna 35000, Firenze 50000, Roma 300000, Napoli 70000, Palermo 40000.
 


 
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