"L'area di Broca", XXX-XXXI, 78-79, 2003-2004
Cinema / video / TV
Loretto Mattonai
West e western
Di quel che è scomparso, della frontiera che non è più, restano (come mobili frammenti di un mosaico) lembi di visioni sempre rivedute e mai corrette. Anzi, non misurabili per proprie virtù innate, indomabili come molti dei personaggi che le animano.
I loro confini sempre incerti avvicinano ancora i limiti dello sguardo; diviene tuttora possibile percorrerli, qualora si recuperi il gusto di partecipare al grande cielo, all’avventura multipla e sempre risorgente suscitata da uno spazio interno (ma vivente nei fiumi alberi erba pietre: intimità tra la mente non recintata e mutevole età di ambiente).
L’orizzonte è quel cinema, più di ogni altro (al di qua al di là dei codici, pur numerosi): l’itinerario alla ricerca dell’altro e di sé, dell’altro che sta nella natura ed in te. Il senso di sollevarsi dei segnali di fumo sulle colline è quello dell’avvento di un’idea che mostra ali falcate, indizio di un pronunciarsi umano alternativo, artigliata discesa del divenire su chiunque attraversi (da solo o in carovana) le terre dell’incognito: suggerite promesse e insieme recate alle vesti ormai logore di una cultura che fu puritana, facendo intravedere la salvifica novità di una barbarie presunta (Dio nella roccia nell’animale nell’acqua).
Ma una simile interpretazione fa presentire una eversività latente che il western sempre custodisce e che la storia del West (come sappiamo bene) presto estirpò, al pari di un’erba infestante nei latifondi colti dal capitale. La frontiera ubiqua attrae col suo oltre da conoscere e incontrare: un’anima ibrida, meticcia, aspira con successo al ruolo principale. Specie nei momenti fulminei in cui si esplica la "crisi"; quando i protagonisti si mettono in gioco, vincendo nodi intimi o fattuali con la lama lucente dell’azione (di una talora sofferta ma comunque interamente coinvolgente adesione alla realtà che li circonda). Talora, senza eccessi di spettacolarità, il movimento narrativo consiste semplicemente (!) nel prendere atto di dove si è, di chi si ha intorno: presa di coscienza delle alternative ineliminabili da ogni monocentrica (culturalmente univoca) esperienza della storia (che ogni buon film ricrei il mondo appare, sì o no vicino al vero?).
Nell’iper-affollamento degli esterni (spesso solo virtuali), nella claustrofobia del noi-dentro-noi, realizzati da tanta produzione contemporanea, ritornano (talora volutamente li evoco) gli squarci di visioni cui accennavo all’inizio, accompagnati da una brezza aperta, principio ricorrente dell’accadere, chiave di (s)volta assai più importante degli esiti concessi a questo o quel film per motivi di cassetta, esigenze di produzione, intenti di politica culturale.
In termini tematicamente prossimi a questi, ma pluri-evolutivi per figure e per segni, considero la mia personale fascinazione nei riguardi del western, non solo una specifica attrazione per gli inizi (terre incontaminate, umani consapevoli del proprio appartenere ad un tutto da amare e difendere), ma forma di interesse per un percorso che tende a rinnovare dall’interno chiunque osi, si metta concretamente alla prova, unisca all’energia necessaria per superare gli ostacoli una misura di comprensione (tolleranza) bastante ad accogliere la necessità del proprio e dell’altrui (spesso diverso, talora avverso) operare.
Così non mi soccorrono ora le immagini dei titoli massimi (o dei films più "decorati") in questo particolare genere, bensì m’invadono momenti e scene in cui ho sentito un vento spirare nella direzione stessa delle poche tracce qui date.
Foreste immense, fiumi da risalire, cacciatori di pellicce, mogli e amanti indiane, ne "Il cacciatore del Missouri" e "Il grande cielo". Campi coltivati tra sparse case di agricoltori, montagne orlate di neve sullo sfondo, mentre a cavallo avanza un uomo dalla giacca chiara (il cavaliere della valle solitaria).
Il gruppo di banditi che trova rifugio in un villaggio in rovina, dove un vecchio stanco e la sua energica nipote si ostinano da soli a cercar pepite d’oro ("Cielo giallo"). Uno squadrone di cavalleria, con tanto di carri e donne al seguito, attraversa lentamente la Monument Valley; sentore di pioggia all’orizzonte, i lampi ripetuti tra le nubi aprono prosispettive di un emozionante spazio epico ("I cavalieri del Nord-Ovest").
Ancora i mormoni e i circensi uniti che, a forza di braccia, trascinano su passi impervi i "coonestoga", nella volontà incrollabile di raggiungere la Terra Promessa ("La carovana dei Mormoni"). Martin Brady, il mercenario che sulle sponde del Rio Grande è costretto da ultimo ad abbattere Lacrimas, il suo magnifico stallone nero: estremo prezzo da pagare alla sorte, prima di guadare il fiume a piedi e cambiar finalmente vita ("Il meraviglioso paese").
Neanche mi è facile dimenticare il dialogo notturno in cui Todo, l’indiano bianco (e perciò inviso ai razzisti dell’uno e dell’altro popolo) descrive alla ragazza che ama, interpretata da Felicia Farr, la propria esperienza di vita intimamente fusa con il cadere e il rinascere delle stagioni e dei giorni ("L’ultima carovana"). Con la stessa attrice, l’intenso incontro a due (mosso dall’onde degli sguardi più che dai lavacri delle parole) nel chiaroscuro di un saloon, tra un fuorilegge braccato e una giovane "dal passato equivoco" ("Quel treno per Yuma").
Infine ecco la folla dei Peones come una lunga vela bianca, bordata di rosso dal cucire di mitragliatrici, mentre conquista i palazzi immoti della tirannide, nella speranza di una distribuzione equa della terra e della costruzione di una Città Solidale ("Vera Cruz").
Infine? No, si tratta solo di un nuovo inizio, l’ennesimo: un seguitare verso i principi mobili dell’altrui lingua, dopo aver conosciuto la disposizione della legna da cui il fumo sorge, avere accolto i gesti di chi ne trae segnali.