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L'Area di Broca
Indice n.80-81
 

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"L'area di Broca", XXXI-XXXII, 80-81, 2004-2005

Numeri, numeri...

 

Giovanni R. Ricci

Amleto e il concetto di infinito
 

   Dalla seconda metà del sedicesimo secolo, è andato gradualmente a diffondersi, fra gli intellettuali occidentali, un senso di malessere e a volte di vero e proprio sgomento dinanzi ad una Weltanschauung, per molti versi millenaria, che stava franando sotto i colpi della nuova scienza, con particolare riferimento al mutamento di paradigma cosmologico indotto dalla rivoluzione astronomica copernicana (il De rivolutionibus orbium celestium è uscito nel 1543). Una delle più significative testimonianze di questo turbamento concettuale è certo rappresentata dall'Amleto di Shakespeare.
   A dimostrazione di ciò molti sono i brani che se ne potrebbero menzionare ma qui voglio riferirmi solo a un passo in cui troviamo un interessante riferimento al concetto di infinito. All’atto II, scena 2 di questa tragedia, poco dopo l’avvio del primo colloquio fra il protagonista e i due falsi amici Rosencrantz e Guildenstern, Amleto afferma e ribadisce che "la Danimarca è una prigione" (v. 240);1 Rosencrantz replica che lui e Guildenstern non condividono quest’opinione, al che il principe reitera il suo giudizio, tuttavia dopo aver affermato – da buon potenziale lettore di Montaigne – la relatività soggettiva dei giudizi morali; Rosencrantz, allora, non senza una nuance polemica, osserva che la Danimarca è troppo angusta per l’ambizione di Amleto; ma questi ribatte (ed ecco il punto che qui mi interessa sottolineare): "O Dio! Potrei essere confinato in un guscio di noce e stimarmi re di uno spazio infinito, se non fosse che faccio brutti sogni" (vv. 249-251). Ebbene, questo concetto di "spazio infinito" può alludere proprio alle teorie cosmologiche allora discusse: si tenga presente che l’universo eliocentrico postulato da Copernico è assai ampio ma non infinito mentre lo è quello teorizzato dall’inglese Thomas Digges tanto che in Inghilterra "vuoi per effetto di confusione, vuoi a causa dello stesso Digges, verso la fine del Cinquecento era divenuta comune la supposizione che l’universo copernicano avesse bisogno di un universo indefinitamente vasto, se non infinito, e molti pensavano che l’infinità ne fosse un requisito necessario".2 Infinito, ma anche costituito da un’infinità di sistemi solari, è poi l’universo del filosofo Giordano Bruno che è vissuto a Londra fra il 1583 e il 1585 pubblicandovi, in italiano, alcuni suoi importanti lavori fra cui proprio il dialogo De l’infinito universo et mondi (1584) ove espone la sua innovativa concezione cosmologica: questa in modo deciso – molto più di quanto avesse fatto lo stesso Copernico – si oppone sia alla millenaria tradizione biblica (si pensi in primo luogo alla Genesi) sia al plurisecolare modello astronomico tolemaico sia a quella teologia aristotelico-tomista che era stata il fondamento della civiltà medievale. L’universo teorizzato dal filosofo nolano è infinito a causa dell’infinità di Dio che a tale universo è immanente ("termino interminato di cosa interminata"3), sebbene egli chiarisca che il cosmo è corporeo diversamente da Dio la cui natura è incorporea, quindi spirituale.
   Il concetto di infinito è sempre in certa misura matematico, anche quando sia usato in filosofia o in teologia, avendo a che fare con la nozione di quantità. Fin dall’antichità sono state distinte due tipologie di infinito: quello potenziale e quello in atto. Un semplice esempio di infinito potenziale può essere la successione dei numeri interi naturali: 0, 1, 2, 3, 4 e così via4; ogni numero ne ha un altro che gli fa seguito e non esiste un numero maggiore di tutti gli altri numeri (a chiunque stolidamente ne proponesse uno, si potrebbe obiettare "Più uno!", come nella "Gara Mondiale di Matematica" immaginata da Cesare Zavattini in un capitolo del suo divertente e insieme melanconico Parliamo tanto di me5). Tale successione numerica procede, per così dire, a scatti dall’1 al 2, dal 2 al 3 e così di seguito mentre un diverso tipo di infinito, quello in atto, può essere dato ad esempio da un’estensione continua, come un segmento qualora lo si immagini composto di infiniti punti. In questo caso, ovviamente, si ha che fare non con l’infinitamente grande ma con l’infinitamente piccolo: immaginiamoci, infatti, di suddividere per due quel segmento e poi ancora per due e di nuovo per due e così via, potenzialmente all’infinito, ove la potenzialità riguarderebbe la nostra mente e il tempo non infinito che avremmo a disposizione (per la durata non eterna della nostra vita) mentre, in quest’ottica, il segmento in sé può considerarsi un infinito in atto, percepibile visivamente nel suo insieme ma non nelle sue infinite componenti. Del resto si tenga presente che, in matematica, il punto è un concetto primitivo della geometria rappresentabile come una figura geometrica priva di dimensioni (altezza, larghezza, lunghezza) e che è, dunque, evidente come il minimo segmento ne contenga in numero infinito; un continuum fatto di infiniti punti è anche la retta, un altro ente primitivo questa volta infinito pure nella sua lunghezza e, perciò, visivamente percepibile (e disegnabile) solo parzialmente.
   L’infinito potenziale è stato definito da Hegel "die schlechte Unendlichkeit", "la cattiva infinità" ma il più dignitoso infinito in atto ha posto ai matematici questioni assai complesse delucidate, solo fra Ottocento e primi anni del Novecento, da Georg Cantor e da Richard Dedekind. Peraltro, a proposito di infinito in atto, sono presto nate due domande: esistono infiniti in atto? E, se esistono, l’uomo è in grado di pensarli? La risposta di un filosofo che è stato a lungo "’l maestro di color che sanno",6 Aristotele, è, in entrambi i casi, negativa - con due sole parziali eccezioni - per quanto attiene al cosmo in cui viviamo: "(…) è impossibile che esista un infinito [ápeiron] in atto" (Fisica, III, 5, 204a, 28)"; "rimane dunque la tesi alternativa: l’infinito ha un’esistenza potenziale" (Fisica, III, 6, 206a, 18).7 Per Aristotele, insomma, sia nell’universo fisico sia nelle nostre menti non si danno infiniti in atto salvo i casi, da noi non immaginabili ma reali, dell’eternità del divenire e, dunque, dell’infinità del tempo; a parte l’infinità temporale dell’universo, per il filosofo stagirita esiste solo l’infinito potenziale (come la successione dei numeri); ma, al di fuori di questo cosmo finito, vi è un Motore immobile che è causa prima del divenire e coincide con Dio; allo stesso modo, alla fine dei tempi, Aristotele postula un Fine ultimo che è ancora Dio. Questo Dio, per il filosofo, gode d’una particolare infinità in atto, inesplicabile dagli umani, analoga ma distinta rispetto a quella dell’universo: è, infatti, sempiterno. S. Agostino aggiungerà nel De civitate Dei (412-426) che Dio, per il suo essere infinito, ha la proprietà di conoscere tutti i numeri: dunque, per Agostino, parrebbe esservi un infinito in atto sia nella successione dei numeri (solitamente associata all’infinito potenziale) sia nella mente di Dio.8 Ma il concetto aristotelico di infinito, fatto proprio da S. Tommaso d’Aquino, con l’aggiunta della nozione biblica d’un Dio creatore e di quella evangelica d’un Giudizio Finale,9 fu la linea vincente fino almeno all’età rinascimentale. Quanto all’universo infinito e non aristotelico di Bruno, questi osserva che la ragione umana, per la sua imperfezione, è ben lungi dal padroneggiarne il concetto: così, l’universo e Dio necessariamente ci appaiono quali infiniti potenziali.
   Shakespeare e Bruno verosimilmente non si conobbero10 ma non si può affatto escludere che l’autore di Amleto sia venuto a conoscenza delle teorie bruniane. L’infinito spaziale cui fa riferimento il principe danese può essere, in sé, quello in atto del filosofo nolano ovvero un’entità che si può nominare – come fa Amleto – ma la cui illimitata estensione non può essere effettivamente immaginata dalla nostra mente così come, del resto, una qualunque astronave non potrebbe mai raggiungerne gli inesistenti confini: si tratta, dunque, dal nostro punto di vista, di un infinito necessariamente potenziale.
   Cosa si può dire oggi del concetto di infinito nella più matematizzata delle scienze, la fisica? Premesso che, dalla formulazione della relatività ristretta einsteiniana (1905), spazio e tempo sono intimamente connessi sì che dobbiamo parlare di spazio-tempo, qui distinguerò per chiarezza le due dimensioni. Il tempo, nella direzione del passato, non si estende all’infinito posto che lo spazio-tempo ha avuto inizio col Big Bang; quanto al futuro dell’universo è dibattuto se, a un certo punto, cesserà di espandersi ricontraendosi – attraverso quello che è stato definito un Big Crunch – fino a ridursi ad una singolarità, cioè a un punto in cui la curvatura dello spazio-tempo sarà infinita, condizione comparabile a quella dei buchi neri, che vedrebbe la fine di tutte le leggi della fisica (inclusa la relatività) e dello stesso nostro spazio-tempo, ovvero dell’universo in cui noi ora abitiamo; in questo caso è verosimile supporre che da quella singolarità nascerebbe, con un altro Big Bang, un nuovo universo con un suo spazio-tempo, mondo destinato anch’esso a espandersi e poi contrarsi, e così di seguito (anche il nostro Big Bang potrebbe aver avuto quest’origine). Implosione o espansione irreversibile sono opzioni teoriche, e possibilità fattuali, che dipendono dalla densità globale dell’universo: se tale densità è inferiore a una certa soglia, come pare probabile, esso continuerà a espandersi; ma tutte le stelle infine moriranno senza che ne nascano di nuove e l’universo diverrà freddo e assolutamente buio; probabilmente la materia residua sarà risucchiata da giganteschi buchi neri che, a loro volta, evaporeranno; in conclusione resterà solo un sempre più immenso (ma non infinito) spazio vuoto occupato da una radiazione sempre più gelida. Per il secondo principio della termodinamica, questo universo sarà ormai morto dal punto di vista energetico: in esso, cioè, non sarà più possibile alcun fenomeno fisico; certo seguiterà a esistere e a espandersi ma avrà ben poco a che fare con ciò che era quando le galassie ancora esistevano. In questo modello l’espansione, comunque, è da ritenere sia eterna, un’illimitatezza nel tempo futuro che la nostra mente non è in grado di figurarsi: ma, anche in sé, questo fluire temporale senza fine pare più inquadrabile nella nozione di infinito potenziale anziché in quella di infinito attuale; e non solo perché il tempo ha avuto un principio e non esiste da sempre ma anche perché, in direzione del futuro, a ogni istante ne seguirà sempre un altro, illimitatamente.
   Considerando ora la dimensione "spazio", ciò che ho detto a proposito del tempo consentirebbe di dare già una risposta al tema se l’universo sia di dimensione infinita. Galileo riteneva di non potersi pronunciare in proposito11 ma, naturalmente, non era a conoscenza della recessione delle galassie, ossia del loro progressivo allontanamento reciproco, segno sicuro del fatto che l’universo si espande. Oggi la risposta a quella domanda è negativa posto che detta espansione crea uno spazio-tempo sempre più ampio che, come ho detto, nell’ipotesi dell’espansione continua, proseguirà per sempre. Anche in questo caso, però, mi pare che questa progressiva smisuratezza spaziale configuri un infinito potenziale che non raggiungerà mai la condizione di infinito attuale: l’universo – la cui estensione spaziale condivide col tempo la stessa origine (la singolarità del Big Bang) – nel futuro, diverrà grande sempre di più, in un processo senza fine. Insomma, in natura, un infinito in atto sembra non esistere, se non in situazioni estreme come quando lo spazio-tempo viene infinitamente curvato in una singolarità.
   Ciò quanto alla fisica. Invece, in termini metafisici, il Dio delle tre religioni monoteiste ha molto a che fare con l’infinito in atto. In primo luogo è onnipotente: anzi, l’Onnipotente (El-Shaddaj, in ebraico) è una delle sue possibili denominazioni. Fra le altre sue proprietà vi sono l’onniscienza – da cui l’idea agostiniana che in mente Dei si dispieghi anche l’insieme infinito dei numeri – e l’infinita bontà.12 A ben vedere, tuttavia, quest’ultimo tratto e l’onnipotenza non possono non entrare in conflitto, qualora si consideri il caso della sofferenza immeritata degli innocenti (un solo esempio fra i molti possibili: i neonati passati per il camino nei campi di sterminio nazista). Un buon padre che vedesse un suo bambino in pericolo di morte o comunque di sofferenza non farebbe di tutto per salvarlo? Se non lo salva, i casi sono due: o non può farlo o non vuole farlo; manca, insomma, o di potenza o di bontà. A ciò si aggiunga che un’esistenza eterna post mortem in Paradiso non cancellerà, comunque, il dolore fisico e/o psicologico ingiustamente provato in vita durante un preciso segmento temporale. Mentre obiettare che la logica dell’infinita giustizia divina è strutturalmente indecifrabile dagli umani, significa solo postulare che il concetto divino di giustizia sia radicalmente diverso dal nostro: ma, in teologia e nella fede comune, le proprietà infinite di Dio sono, in realtà, il grado estremo delle stesse qualità (bontà, potenza, conoscenza, giustizia ecc.) che noi conosciamo nel nostro mondo.
   Così anche infinita bontà e infinita giustizia sono destinate a entrare in opposizione.13 Ma su questo tema teologico concludo ricordando che quanto ho detto nulla afferma sull’esistenza o meno di un Dio (se il lettore è curioso di conoscere il mio personale pensiero dirò che suppongo possa esservi un Ente denotato, all’incirca, da qualche tratto del Dio cristiano e da qualche altro del Demiurgo teorizzato dagli gnostici, un creatore probabilmente buonissimo ma non onnipotente che, per così dire, non è stato in grado di porre in atto al meglio i propri progetti e che ha limitate o nulle possibilità d’intervento sul mondo che ha generato). Peraltro, l’idea di karma, la legge etico-metafisica di causalità propria delle religioni induista, buddista e jainista, ossia l’idea che un individuo soffra per colpe da lui stesso compiute in esistenze passate, risolve le problematiche sopra espresse. Il che non implica, né esclude, che tale ipotesi sia vera.
   L’infinito in atto non ha, comunque, a che fare solo con la teologia (dunque con un campo extra-scientifico) ma anche con la più fondamentale delle discipline scientifiche: la matematica che è, notoriamente, scienza in sé e strumento imprescindibile delle altre scienze (intendendo questo termine in senso stretto).
   Guardando al mondo fisico e all’infinitamente grande, è da ricordare che, nelle narrazioni di molti autori di fantascienza, ma anche nelle teorie di qualche fisico, sono ipotizzati, accanto al nostro, universi paralleli che potrebbero essere in numero infinito; ammesso che ciò sia vero (inclusa la loro infinità), si tratterebbe di un infinito numerico in atto, ovvero, in termini matematici, d’una classe con infiniti elementi: possiamo dare un nome al loro insieme – è già stato fatto: multiverso14 – e accennarne una parzialissima rappresentazione grafica (possiamo trovarla in vari testi) ma non siamo in grado di immaginarceli simultaneamente tutti quanti. Ancora una volta siamo inabili a liberarci dall’impotenza cognitiva a pensare, compiutamente, l’infinito in atto.
   Il multiverso, matematicamente, ha a che fare con la teoria degli insiemi cui accennerò fra poco. Ma, procedendo in ordine cronologico, la storia dell’infinito in matematica, ci presenta, dapprima, la nascita del calcolo infinitesimale: questo, includendo il calcolo differenziale e quello integrale, ha per oggetto lo studio del variare delle funzioni in conseguenza di variazioni infinitamente piccole delle variabili. È un campo, infatti, che ha a che fare con gli infinitesimi (da cui la denominazione "calcolo infinitesimale"): l’infinitesimo in matematica è definito come una quantità tendente a zero, ossia minore, in valore assoluto, di qualsiasi quantità positiva prefissata e piccola a piacere. Storicamente il calcolo infinitesimale è nato da una corrente minoritaria del pensiero scientifico ove troviamo, in particolare, i nomi di Democrito (V-IV sec. a. C.), di Eudosso di Cnido (IV sec. a. C.) e di Archimede (III sec. a. C.) finché nel Seicento, senza conoscere lo specifico testo archimedeo scoperto solo nel 1906,15 due allievi di Galileo, Bonaventura Cavalieri e Evangelista Torricelli, posero le basi e svilupparono l’antenata del calcolo infinitesimale: la "geometria degli indivisibili", per la quale il continuo (un segmento, un piano limitato ecc.) è composto da infiniti elementi minimali ed indivisibili, costituendo dunque un infinito in atto. Alla crescita di questo campo della matematica contribuì anche uno scienziato inglese, il docente oxoniense John Wallis. Lo stesso Galileo, che pure non accettò la geometria degli indivisibili quale tecnica operativa, condivideva l’idea della divisibilità d’un continuo non infinito in infiniti elementi indivisibili che egli precisava dovessero essere "non quanti", ovvero privi di estensione. Le indagini di Cavalieri, Torricelli e Wallis consentirono, poco più avanti, la genesi del vero e proprio calcolo infinitesimale elaborato, indipendentemente l’uno dall’altro e parallelamente, dal filosofo (e matematico) Leibniz e da Newton, anche se il primo pubblicò le sue ricerche già nel 1664 mentre l’inglese attese per farlo il 1687. Tuttavia questa tecnica non ebbe più a che fare, ad esempio, con tutte le infinite linee d’un quadrato o tutti gli infiniti piani d’una figura solida: come ebbe a scrivere, in un suo aureo volumetto su L’infinito, il matematico e pedagogista italiano Lucio Lombardo Radice, "il fondamento del calcolo infinitesimale è (…) il concetto di limite. Si parte da una suddivisione finita, e in relazione a essa si fa un calcolo approssimato. L’approssimazione diviene esattezza quando il numero delle parti tende all’infinito, diventando ciascuna parte evanescente, infinitamente piccola, infinitesima".16 Anzi, alla fine dell’Ottocento, il matematico tedesco Karl Weierstrass, con la sua teoria dei limiti, eliminò la nozione stessa di infinitesimo dal calcolo infinitesimale. È vero che essa permase nel linguaggio matematico ma quale finzione concettuale (come già in Leibniz), sebbene vi siano stati matematici che ne hanno tentato un recupero, da Paul Du Bois-Reymond a Thoralf Skolem ad Abraham Robinson. Ad ogni modo l’infinitesimo è un ente matematico che non sembra avere riscontro nel mondo reale: infatti, la fisica delle particelle, almeno allo stato attuale delle conoscenze, ritiene che, a fondamento di quanto esiste, vi siano particelle elementari indivisibili ma ‘quante’ (nel senso di Galileo) e numericamente non infinite, ‘mattoni’ costitutivi del Tutto, da un semplice atomo all’intero universo. Si tratta dei quarks, dei leptoni (fra cui l’elettrone) e dei bosoni (un esempio è il fotone). Le ipotesi, attualmente non verificabili, di alcuni fisici sull’esistenza di particelle costituenti gli stessi quarks non mutano le considerazioni che ho esposto sull’estremamente, ma non infinitamente, piccolo.
   La possibilità di pensare a e di operare con l’infinito in atto torna – siamo nell’Ottocento – nella teoria degli insiemi dei già citati matematici tedeschi Cantor e Dedekind, entrambi allievi di Weierstrass. In questa teoria si danno situazioni paradossali (contrarie al senso comune) ma non realmente assurde. In sintesi estrema, basta tenere presente che l’infinito in atto considerato da questi autori non è un infinito assoluto (che esula da possibilità di matematizzazione) ma un infinito ancora accrescibile nel numero dei suoi elementi. Cantor ha dato a questo particolare tipo di infinito in atto - l’unico affrontabile matematicamente - il nome di transfinito. Galileo riteneva che gli infiniti non si prestassero a confronti in termini di grandezza17 ma, nella stessa opera ove ha espresso questo concetto, ha esposto anche il cosiddetto paradosso degli interi e dei quadrati. Vediamolo: i numeri che nascono da numeri moltiplicati per se stessi (come 4 che è il prodotto di 2 x 2) si dicono "quadrati" mentre il numero elevato al quadrato si dice "radice" di quel prodotto (nell’esempio fatto 2 è radice di 4, più in generale n è radice di n2); tutti i numeri (quadrati + non quadrati) sono più dei soli numeri quadrati; questi, anzi, sono una minoranza; ma ogni numero può essere moltiplicato per se stesso generando così un numero quadrato; ergo i quadrati, parte della totalità dei numeri, al tempo stesso sono tanti quanti tutti i numeri (quadrati e non quadrati).18 Un altro possibile esempio sono i numeri pari che, indubbiamente, sono di meno rispetto all’insieme di tutti i numeri; eppure sia i numeri pari che tutti i numeri (pari + dispari) sono infiniti. Lo stesso ragionamento vale, ovviamente, anche per i numeri dispari. Ebbene, Cantor e Dedekind hanno mostrato come, nel caso di insiemi infiniti (nel senso sopra specificato), senza alcuna contraddizione, una parte possa equivalere al tutto, un quadrato o un cubo possa essere composto di tanti punti quanti ne ha un suo lato, e l’intero spazio comprenda tanti punti quanto un semplice segmento anche microscopico. Attenzione, però: in questa teoria non si tratta di identità assoluta fra insiemi infiniti ma di equivalenza (il termine tecnico è equipotenza) per numero di elementi che essi contengono sì che gli elementi dell’uno possano essere messi in corrispondenza biunivoca con gli elementi dell’altro.
   Chiudo qui questi cenni matematici per non entrare in particolari ulteriormente tecnici, salvo rimandare al già citato testo di Lombardo Radice e alla densa Breve storia dell’infinito del matematico e filosofo Paolo Zellini.19 Tornando, per concludere, a Amleto e alla sua menzione d’uno spazio infinito, probabilmente un infinito in atto di natura cosmologica, mi piace citare ciò che ha scritto in proposito uno dei massimi fisici contemporanei, e cioè Stephen Hawking, oltre tutto in un testo che, anche nel suo titolo, The Universe in a Nutshell (L’universo in un guscio di noce), fa esplicito riferimento alle parole del principe danese: "Amleto forse intendeva dire che l’essere umano, pur avendo limiti fisici, ha una mente libera di esplorare l’intero universo e di dirigersi audacemente dove nemmeno Star Trek osa avventurarsi (quando i brutti sogni non la invadono)".20
 

NOTE

  1. Cito dalla traduzione italiana di Alessandro Serpieri: William Shakespeare, Amleto, a cura di A. Serpieri, Venezia, Marsilio, 1997. Si tenga, inoltre, presente che la suddivisone in atti e scene delle opere di Shakespeare è stata introdotta solo a partire dall’edizione in sei volumi uscita nel 1709 a cura di Nicholas Rowe.
  2. Marie Boas, Il Rinascimento scientifico 1450-1630, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1973, p. 91.
  3. Giordano Bruno, "De l’infinito, universo e mondi", a cura di Jean Sedigard, in Opere italiane, a cura di Giovanni Aquilecchia, Nuccio Ordine et al., vol. II, Torino, UTET, 2002, pp. 7-67, citaz. a p. 47.
  4. Lo zero era ignoto ai Greci. Questo, che è il primo numero intero naturale, fu utilizzato per la prima volta in India intorno al 500 a. C. ma è probabile che il concetto di zero fosse già noto nella cultura Maya; dalla matematica indiana lo zero passò a quella araba; da questa, nel tredicesimo secolo, lo zero fu introdotto in Occidente dal matematico pisano Leonardo Fibonacci (insieme alle altre nove cifre dette "arabe" ma che Fibonacci chiamò, più precisamente, "indiane").
  5. Cfr. Cesare Zavattini, Parliamo tanto di me, 6a edizione, Milano, Bompiani, 1937, pp. 110-114 (1a edizione: 1931). In questo romanzo la voce narrante racconta d’un suo viaggio (o sogno di viaggio) notturno nell’Aldilà, in compagnia d’uno spettro; la vicenda della Gara Mondiale di Matematica è narrata, al capitolo XVI, da un tal Ted Mac Namara di cui è un ricordo infantile.
  6. Dante, Inferno, IV, v. 131. Dante, nei suoi scritti, riconosce più volte ad Aristotele il ruolo qui attribuitogli.
  7. Aristotele, Fisica, a cura di Luigi Ruggiu, Milano, Rusconi, 1995, pp. 131 e 141.
  8. Anche Galileo Galilei, in un passo del suo Dialogo dei massimi sistemi (1632), asserisce che Dio conosce tutte le infinite proposizioni della matematica mentre l’intelletto umano è in grado di conoscerne e comprenderne solo un numero limitato: ma, aggiunge lo scienziato pisano, "di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore" (G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, a cura di Libero Sosio, Torino, Einaudi, 1970, p. 127).
  9. Come ho già detto, l’universo, per Aristotele, è eterno al pari di Dio. Al contrario la Creazione biblica (Genesi, I e II, 1-3) pone un inizio del mondo fisico mentre il Giudizio Finale cristiano (cfr. Matteo, XXIV-XXV) ne implica la cessazione: l’universo non ha, perciò, l’illimitatezza temporale che gli attribuisce il filosofo greco. A parte queste differenze, San Tommaso, nell’edificare un sistema teologico che intendeva essere razionale e dunque scientifico, si rifece costantemente ad Aristotele.
  10. Quando nel 1585 il filosofo partì da Londra, è assai improbabile che Shakespeare vi fosse già giunto.
  11. Cfr. la lettera del gennaio 1641 allo scienziato e filosofo Fortunio Liceti: la si veda in Galileo Galilei, Le Opere, edizione nazionale, vol. XVIII, Firenze, Barbera, 1906, pp. 293-295.
  12. Ritengo non erroneo interpretare in questa chiave anche gli appellativi divini che più ricorrono nel Corano: il Misericordioso (al-Rahamàn) e il Compassionevole (al-Rahìm) che, del resto, non sono i soli, fra i novantanove epiteti di Allàh ivi menzionati, a denotare la nozione d’una bontà posseduta in termini assoluti.
  13. Lo stesso concetto cristiano di peccato originale si oppone a un’idea evoluta di giustizia attribuendo al singolo trasgressioni non proprie bensì di presunti antenati, senz’altro immaginari se il comportamento peccaminoso è attribuito a figure mitiche come Adamo ed Eva: gioca qui un’idea elementare ed arcaica quale il concetto biblico dell’ereditarietà della colpa, un pensiero che vi è, per esempio, anche in Eschilo. In quest’autore il meccanismo è riferito al ghénos, alla stirpe familiare, e non all’intera umanità, ma anche il mito della Genesi identifica i primi ‘colpevoli’ nei nostri ‘progenitori’, sì che il peccato originale sarebbe anch’esso, per così dire, una questione di famiglia (con l’unica eccezione, nel cattolicesimo, della Madonna, stante il dogma della Immacolata Concezione, definito come tale da papa Pio IX nella bolla Ineffabilis Deus del 1854: tale dogma afferma, appunto, l’assenza del peccato originale nella madre del Cristo-Dio e non riguarda, come molti fedeli tuttora pensano, la sua verginità, asserita peraltro da un dogma del 649).
  14. Cfr. David Deutsch, La trama della realtà, tr. it., Torino, Einaudi, 1997, pp. 231-259 nonché D. Deutsch e Michael Lockwood, "The Quantum Phisycs of Time Travel", Scientific American, March 1994, pp. 50-56 (tr. it. "La fisica quantistica dei viaggi nel tempo", Le Scienze, n. 309, 1994, pp. 60-66).
  15. Il testo di Archimede in questione ha per titolo Metodo di Archimede sui teoremi meccanici, ad Eratostene (lo si veda in Archimede, Opere, a cura di Attilio Frajese, Torino, UTET, 1974, pp. 555-610). Gli specifici scritti di Democrito e di Eudosso utilizzanti il concetto di infinito geometrico sono perduti: di questi pensatori tutt’oggi abbiamo solo frammenti ma la menzione delle loro teorie da parte di altri autori, fra cui Aristotele, consente di conoscerne in buona misura il pensiero. In particolare, il contenuto dei loro lavori relativi anche all’infinito è citato proprio nel Metodo di Archimede (cfr. op. cit., p. 572), certo in estrema sintesi e tuttavia abbastanza perché il ragionamento di Democrito e quello di Eudosso potessero essere ricostruiti (cfr. L. Lombardo Radice, L’infinito, Roma, Editori Riuniti, 1981, pp. 20-24).
  16. Op. cit., p. 35.
  17. "(…) stimo che questi attributi di maggioranza, minorità ed egualità non convenghino a gl’infiniti, de i quali non si può dire, uno esser maggiore o minore o eguale all’altro" (G. Galileo, Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze attinenti alla mecanica ed i movimenti locali, a cura di Enrico Giusti, Torino, Einaudi, 1990, p. 42).
  18. Cfr. op. cit., pp. 42-44.
  19. P. Zellini, Breve storia dell’infinito, Milano, Adelphi, 1980.
  20. Stephen Hawking, L’universo in un guscio di noce, tr. it., Milano, Mondadori, 2002, p. 73.

 


 
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