"L'area di Broca", XXV-XXVI, 68-69, 1998-99
SCRITTURA
Kiki Franceschi
A proposito di scrittura e poesia
Scrivere è esplorare, inoltrarsi nelle caverne della cultura e qui faticosamente procedere e procedendo imbattersi in colline di cocci, trovare miriadi di frammenti, resti di templi, parole, suoni testimoni del passato mistero.
Prima dell'Egitto, di Babilonia, dei Sumeri, dei fascinosi Indi, si alzò su solide basi un'astronomia arcaica che venne fissando il corso dei pianeti, nominò costellazioni, inventò l'universo astronomico e il cosmo. Più tardi verso il quattromila cominciò la scrittura e con la scrittura il tempo storico.
È dalla visione unitaria del cosmo che nasce l'alfabeto e insieme la cosmologia o meglio un'essenza cosmologica, in cui tutto è pensato nei termini di un moto regolare e misurato.
Il reale s'impernia sulle potenze stellari, che sono guidate misteriosamente dai pianeti. La visione dell'universo è organizzata secondo un ordine rigoroso, dettato non dalla volontà degli dei, quanto dalla natura inaccessibile, inesorabile, impassibile.
L'uomo assiste, partecipa dell'essere, segue i riti, celebra miti.
L'universo arcaico è ragione, e la ragione è affidata al numero.
Con la scrittura inizia il racconto, il prima e il dopo, si scandisce il tempo.
La storia è fuga in avanti e insieme ritorno alle origini. Ogni visione apocalittica ricongiunge la fine al principio. Costante dell'avventura umana sarà il mito dell'eterno ritorno.
Scrittura come esplorazione. Certo. Dal frammento ritrovato l'archeologo ricostruisce un mondo magico perduto, proprio come il poeta che va avanti e indietro per anni labirintici, si aggira nella necropoli dei miti, affascinato dalle grotte e dagli anfratti, dalle pareti stratificate che penetrano le une dentro le altre a nascondere pietre preziose, fossili, chissà se tesori.
È in questo mondo che trova i segni rari, i geroglifici, le impronte col nerofumo, i calchi dei piedi e delle mani affondati nel tufo e nelle argille, tracce perenni d'uomini per i quali l'arte era intima copia delle cose.
Dai frammenti ritrovati, dai segni, dai suoni, dai fonemi il poeta così riparte, indomabile Odisseo, va oltre la parola, al di là della storia, al di là della poesia stessa, sprofonda nel preverbale da cui hanno origine i linguaggi, luogo dove i suoni e le parole non sono ormai né suono né parola perché è là che hanno una particolare somiglianza.
La parola è leggera, volatile, il suono esiste solo se sta sparendo. Omero ci parlava di parola alata, in movimento, libera di sollevarsi sopra il mondo oggettivo, pesante.
La parola poetica non ha corpo. I drappelli di sillabe filtrano via inavvertiti e veloci, i fonemi assommano impressioni acustiche, le immagini producono nuove immagini, l'onda si scinde in mille altre onde.
I codici delle lingue sono iceberg di cui si conosce solo la parte che affiora. È sott'acqua che si nascondono i potenziali comuni allo sviluppo dei linguaggi, le metafore, le sinestesie. Ecco perché il poeta si cala nell'abisso.
È alla ricerca del seme dell'infinito, per dirla con Malevic, vuole risvegliare il poetico che la quotidianità ha sopito ma non soppresso.
Abita il NOWHERE. Luogo magico della genesi, dei sogni, del ritorno.
Foucault scriveva che il linguaggio è il luogo delle rivelazioni.
La lettera tra tutti è il segno più affascinante, simbolico e ampolloso, tende alla decorazione, all'oscurità, alla crittografia, combina fantasia e calcolo, è segno figurato e magia.
Agli artisti del '500, '600 il mondo appariva come un labirinto, quindi la lettera alfabetica era piena di ghirigori e svolazzi e i poeti si producevano in labirinti alfabetici. Così più tardi Mallarmé, i poeti del nonsenso, i dadaisti, Apollinaire, Prévert, Enzensberger.
Il fascino del giuoco di parole è lo stupore di trovarsi di fronte al puro caso, l'incanto è sottoposto alla componente ritmica, al numero, che non è più ordine ma ritmo interno perché serve a scandire la musica interna al verso. Onda e pausa, avanti e indietro facevano risaltare i liberi numeri del canto omerico, il ritmo era dato dalla parola e dal gesto, non dettava legge il battito del metronomo, ma il modello era la danza dei corpi celesti. Il procedere, il sostare, il retrocedere dei pianeti, era l'immagine mobile dell'eternità, per dirla con Platone.
Ogni poeta si aggira intorno al mito archetipale, il significato della storia e dell'arte essendo intorno al grande archetipo dell'esistenza umana, che è poi il significato della scrittura.
Prima di Babele, del diluvio, dev'essere esistita una scrittura composta dei segni stessi della natura, scrittura primitivamente naturale, di cui le scritture esoteriche hanno conosciuto la memoria dispersa. È a quella scrittura che la poesia vuole tornare.
Nel 1600 J. Boehme ricercava la lingua adamitica o primigenia, voleva bere alle sorgenti del mito con la stessa ansia con cui Hölderlin desiderava intendere la lingua degli dei, ricostruire l'unità perduta, ritrasformare il segno in senso. Questo è il punto.
Ci si avvia perciò al superamento del linguaggio, attraverso una comunicazione non solo verbale che coinvolga tutti i sensi, alla ricerca di quella lingua universale che sappia inventare di nuovo i segni per accogliere la totalità del mondo. Allora il mondo diverrà Enciclopedia, i cui libri saranno la moltitudine dei mondi.
Nel tempo antico c'erano i poeti, non i prosatori, la parola e il gesto erano una cosa sola. Nel neolitico, era dominante la concezione cosmografica in cui terra e cielo s'incontrano, e così cifre, ritmi, alfabeti, destini degli uomini. Poteri degli astri, degli dei e dei pianeti erano unica cosa. Non sarà colmato il senso di vuoto e lo sgomento: si è come smarriti nella storia, avendo perduto la chiave del passato non si ha tempo per leccarsi le ferite inferte dal tempo. Ci sovrasta la sfinge spettrale della metafisica.
La poesia antica ha significato e compito misteriosofico, magico, disciplinare e la lingua che l'esprime è metaforica, è discorso poetico.
La poesia contemporanea, distruggendo i valori logici, morfologici, sintattici fa sì che ogni parola acquisti un valore nuovo ed in un certo senso trasfigurato, non più sottomesso alla gerarchia dei valori logici e sintattici. La scrittura poetica nel nostro secolo soprattutto s'impadronisce di nuove dimensioni, va verso l'alto e verso il basso, usa tutti quegli artifici grafici e tipografici che possano mettere in rilievo il rapporto che nasce dall'articolazione dei segni tra loro e facciano intendere la parola nelle tre dimensioni, verbale, visuale, vocale. Non c'è una musicalità della parola che possa andare separata dal significato e dal contesto fonico e simbolico della lingua in cui è usata, ma è proprio per la diversa componente sonoro-significante che molti poeti usano in poesia parole prese a prestito da altre lingue. È un gioco d'intarsio, un collage letterario. I parallelismi si fanno non solo a livello sonoro. Kandinsky, Paul Klee lavorano intorno ai rapporti tra suono e colore, numero e suono, sperimentando in molte opere pittoriche l'analogia tra strutture musicali, ritmiche e melodiche e la linea. Si ha una commistione delle arti, perché si è capito che l'arte è substrato stesso della vita dell'uomo. Le avanguardie storiche hanno voluto penetrare l'essenza del linguaggio e superarlo come fenomeno storico, ma direi che ci sono precedenti illustri in questa affannosa fuga dalla galera del linguaggio. Marino sosteneva che la poesia è musica, Crashaw, il metafisico e Gòngora il barocco ricercavano tenacemente gli effetti fonici e altri loro contemporanei diffondevano la poesia visualizzata, emblematica che esprimeva il contenuto anche attraverso una forma visiva. Brisset, nel secolo scorso, era convinto che il linguaggio possedesse una sorta di coscienza soprannaturale e creava un sistema cosmico di cifratura basato sulle combinazioni alfabetiche, Voltaire sosteneva che la scrittura era pittura della voce.
È soprattutto nel novecento tuttavia che la grafica, i simboli, l'ordine compositivo divengono significanti; il poeta vuole restituire al linguaggio la dimensione creativa, si avvia al superamento del linguaggio attraverso una comunicazione che coinvolga tutti i sensi, un'ipercomunicazione che inventi di nuovo i segni e una nuova sintassi per accogliere la totalità del mondo. Ognuno inventi il proprio linguaggio e lo proietti nel futuro.
È nel silenzio che esplode la parola.
Il mio mondo poetico è il luogo d'esistenza del silenzio, è il porto che accoglie una scrittura neutra, una lingua basica lontana dai linguaggi parlati o letterari. Uso il collage, concetto, filosofia che crea forme inedite, caleidoscopio di un nuovo lirismo, ponte di passaggio tra conscio e inconscio. Non ricerco altro che il significato del fare poesia, punto all'essenza e in questo ricercare ho la convinzione che il significato della poesia e della storia sono da trovarsi nel loro rapporto col grande archetipo dell'esistenza umana. Mirando all'essenza, all'universalità del linguaggio, perché la poesia è intraducibile, ogni traduzione la rende "altra". Il poeta non è più il cantore del lamento, dei luoghi comuni, degli amori infelici, il poeta mira alla sintesi, ha ereditato dai futuristi e dai lettristi il fonema, l'onomatopeia astratta, il rapporto tra arte visiva e poesia è sempre più stretto, il colore delle vocali appare sui quadri, il movimento, la forma e la disposizione tipografica sono significanti poetici e il più tradizionale dei poeti lo sa. Oggi, grazie alle esperienze dei futuristi, dei lettristi, degli inisti, dei poeti visivi, possediamo una nuova lingua poetica, viviamo una nuova fase d'ampiezza del linguaggio e la visività della parola scritta è parte dello statuto letterario. È insomma nata la terza letteratura, come la definisce Sanguineti nella "Visione Fluttuante".
L'immagine letteraria cresce per aggiustamenti successivi, il corpo grafico è simultaneo, ogni immagine crea altre immagini, così come nella letteratura lineare ogni parola, ogni frase è corretta dalle successive.
La mia poetica celebra la morte della parola, il suo sregolamento verso l'altrove. L'immagine dissacrata, violata dal gesto e dallo strappo che la scompone e la sorpassa, mi porta al di là e al di qua della parola, verso quella poesia oggettiva di cui parlava Rimbaud nella lettera a Izambard. Posso sentirmi talvolta affascinata dal mito, essendo il mito linguaggio della partecipazione, cosmologia in movimento.